Dopo una lunga pausa torna il blog, con una rubrica tutta nuova, “Un fine settimana indirezionenoncasuale”, in cui lasciamo che siano le foto (accompagnate da qualche informazione utile) a raccontare le nostre scoperte e i nostri percorsi all’insegna di arte e bellezza durante appunto il fine settimana.
Cominciamo con il fotoracconto di sabato 14 e domenica 15 ottobre 2023.
Lessico famigliare Galleria dell’Incisione, Via Bezzecca 4 Fino al 12 novembre, martedì-domenica dalle 17.00 alle 20.00
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Esposizione delle opere di Dora Creminati, Marcello Gobbi e Davide Sforzini. InStudio, Via Calatafimi 20/c (terminata)
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Francesca Adamo. The Cube, The Soul Palazzo Facchi, c.so Matteotti 74 fino al 28 ottobre, giovedì e venerdì dalle 18.30 alle 20.30, sabato e domenica dalle 10.00-13.00 e 15.00-20.30
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Street art aumentata passeggiando lungo i piloni della metropolitana tra Sanpolino e Sant’Eufemia
In quest’ultimo periodo così incerto credo che per molte persone, e sicuramente per chi sta scrivendo, l’arte abbia rappresentato un’ancora o meglio un faro verso cui puntare. Si sono contati innumerevoli tentativi, da parte di istituzioni museali e gallerie e di diversi addetti ai lavori di rafforzare il legame con il pubblico, ma non tutti hanno avuto successo, forse perché spesso non erano probabilmente sostenuti da un reale progetto, da una visione che andasse al di là di una mera galleria statica di immagini delle opere per offrire a quello stesso pubblico almeno l’impressione di un contatto più ravvicinato con le opere e non solo di sfogliare online le pagine di un catalogo. Per questo quando ho casualmente scoperto la mostra virtuale organizzata da Colossi Arte Contemporanea – una galleria nel cuore di Brescia di cui ammiro ogni volta le vetrine – non mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo. Ero, francamente, più preparata all’ennesimo “meh” che all’effetto “wow”. Invece mi sono dovuta ricredere, perché l’esperienza all’interno di Colossi Space Lab ricorda quella in galleria, dal vivo, consentendo realmente di spostarsi tra i quadri esposti, di ingrandirli per ammirare i diversi particolari, di leggere i cartellini e persino di seguire una sorta di visita guidata in un ambiente 3D.
“Welcome to the (urban) jungle” questo potrebbe essere il sottotitolo della mostra Urban Animals – una giungla coloratissima, pop, surreale e giocosa, mai banale, quella immaginata e realizzata da Max Bi, quasi una serie di graffiti su tela di grandi dimensioni che potrebbe tranquillamente trovare spazio sui muri della nostra città, in tutte quelle aree dismesse, post-industriali in cui, come in questa rassegna, il grande assente è proprio il cosiddetto animale culturale, l’uomo, tutt’al più ridotto a una sagoma, a figurina di contorno, a immagine di sé stesso, talvolta a teschio su un cartello.
L’assenza è però solo dell’uomo, non già del genere umano che pur passato in secondo piano ha lasciato forti tracce di sé nell’ambiente che ha modellato e in cui sono inseriti gli animali che diventano appunto “urbani”. Macchine e grattacieli, negozi, semafori, strade e autostrade, ma soprattutto tante, tantissime porte e finestre e sbarre a queste finestre, forse non più per tenere fuori l’altro, quanto per tenere dentro noi stessi. Prigioni e gabbie, ma chi le abita davvero?
Courtesy of Colossi Arte Contemporanea
Una domanda che l’artista lascia aperta, anche se, tra i ricorrenti segnali di pericolo, sembra essere la natura a emergere vittoriosa, a riappropriarsi dei propri spazi in un futuro post-pandemico. Dallo sfondo, da quell’ambiente urbano di cui si diceva in precedenza emergono, infatti, i protagonisti indiscussi, gli animali, esotici o più comuni, tutti rivisitati a tinte forti, sovente rendendoli simili a fumetti, a tratti dotandoli di caratteristiche antropomorfe.
Courtesy of Colossi Arte Contemporanea
Nel complesso una mostra davvero interessante soprattutto perché ancora una volta l’arte riesce al contempo a essere un portale verso altri mondi, una via di fuga dalla realtà e dal quotidiano e una finestra sul qui, sull’adesso, sul mondo che abitiamo. Guardando al di là del tripudio di colori sgargianti, di una solo apparente spensieratezza, Max Bi ci offre spunti di riflessione sul futuro, sulla realtà che ci circonda, sul suo percorso artistico e sulla nostra impronta su questo pianeta.
Piè di pagina Dove: Colossi Space Lab www.colossiarte.it Quando: dal 7 maggio al 30 giugno 2020 Come: ingresso gratuito, visita nello spazio virtuale 3D
Brescia torna ad animarsi con diverse proposte culturali interessanti che si aggiungono alla riapertura dei Civici Musei e alla personale di Lori Nix negli spazi di Paci contemporary. Una delle mostre abbiamo già potuto “visitarla” e ne parleremo qui a breve sul blog, mentre per le altre il sipario si alzerà il 13 giugno.
Dal 8/06/2020 al 14/06/2020
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MAX BI Urban Animals
Dopo la sede di Brescia e quella di Iseo Colossi Arte Contemporanea inaugura la sua galleria virtuale – Colossi Space Lab – con la mostra “Urban Animals” che raccoglie un’ampia selezione dell’omonima serie realizzata da Max Bi. Un’esperienza di visita interattiva davvero piacevole che unisce alla sensazione di muoversi realmente tra le sale, liberamente o seguendo una visita guidata, la possibilità di ingrandire le tele esposte per ammirarle in ogni dettaglio e non manca neppure una nota del curatore
Categoria: Arte Dove: Colossi Space Lab Quando: dal 7 maggio al 30 giugno 2020 Cosa: Mostra temporanea www.colossiarte.it Ingresso libero
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Ma.Co.f – Centro della fotografia italiana Christopher Broadbent, “Il grande incanto” Eros Mauroner, “Piccoli oltraggi a grandi opere”
Il Macof riprende l’attività con due mostre temporanee che si affiancano alla collezione permanente che racconta i percorsi della fotografia italiana nel secondo Novecento. La prima rassegna, “Il Grande Incanto”, porta i visitatori alla scoperta dell’opera fotografica still life di Christopher Broadbent. Nella serie Quello che resta. Storie di retrocucina l’artista, con particolare attenzione ai piani prospettici, accosta elementi naturali e inanimati inserendosi nella tradizione della natura morta.
Rientra invece nel programma più ampio di valorizzazione della fotografia bresciana la seconda mostra Piccoli oltraggi a grandi opere che vede protagonista Eros Mauroner, un fotografo che spesso ha fatto proprio dell’architettura cittadina una delle protagoniste dei suoi ritratti.
Categoria: Fotografia Dove: Ma.Co.f, Via Moretto 78 Quando: dal 13 giugno al 2 agosto 2020 solo venerdì, sabato e domenica, dalle 15 alle 19 Cosa: mostra temporanea christopher-broadbent-grande-incanto piccoli-oltraggi-grandi-opere/ Ingresso libero e contingentato
Voglia di riappropriarsi degli spazi cittadini e della provincia, voglia di riempire mente e occhi di nuove suggestioni anche con la riapertura di musei e gallerie d’arte. In questo periodo così incerto qualche proposta per (ri)scoprire il patrimonio bresciano sempre all’insegna di “tutta la bellezza che c’è” nel miglior stile di #indirezionenoncasuale
Dal 1/06/2020 al 7/06/2020
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Lori Nix: “Il potere della natura”
Paci contemporary si dimostra ancora una volta il punto di riferimento (ben oltre i confini cittadini) per tutti gli amanti della staged photography. Una visita alla galleria offre una panoramica dell’intero percorso artistico dell’artista americana che si muove a cavallo tra fotografia e installazione, realizzando complicati microcosmi da cui l’essere umano è scomparso, lasciando però tracce ben visibili del proprio passaggio. In mostra anche alcuni lavori della serie “The City”, tuttora in corso d’opera. Un appuntamento da non perdere per chi ha sempre avuto una passione per le case di bambola, i diorami e le miniature e per chi immagina i diversi scenari di un (lontano) futuro post-apocalittico.
Categoria: Fotografia Dove: Paci contemporary gallery, Via Borgo Pietro Wuhrer 53 – Borgo Wuhrer Quando: dal 19 maggio 2020 Cosa: Mostra temporanea https://www.pacicontemporary.com/mostra/brescia/ Ingresso libero negli orari di apertura della galleria. Prenotazione consigliata.
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Civici musei di Brescia
Riaprono con nuove modalità di fruizione la Pinacoteca Tosio Martinengo e il Museo di Santa Giulia. Le visite saranno accompagnate dagli operatori museali che guideranno gli ospiti attraverso il patrimonio bresciano e la stratificazione di secoli di storia. Un’occasione per ammirare, ad esempio, la scuola pittorica bresciana del ‘500 nelle sale della Pinacoteca oppure per compiere – in pochi passi – un “viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità di Brescia dall’età preistorica ad oggi”.
Categoria: Eventi Dove: varie sedi Cosa: visite guidate Su bresciamusei.com è stata creata un’interfaccia utente immediata che indica giorno per giorno la disponibilità per gli ingressi nei diversi siti.
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Fondazione Paolo e Carolina Zani
La villa di famiglia, ora trasformata in casa-museo, ospita la collezione di dipinti, sculture, arredi e oggetti d’arte applicata, raccolti in oltre trent’anni da Paolo Zani che raccontava di aver collezionato per esprimere il proprio gusto, per appagare la propria curiosità e per abitare il bello attraverso l’arte. In quest’ottica la nuova vocazione degli spazi non ha voluto cancellare la sensazione di entrare in una dimora privata. Per completare la visita non può mancare una passeggiata nel giardino e lungo i loggiati che creano un percorso in cui l’opera dell’uomo (sculture, fontane, elementi architettonici) dialoga con la natura.
Categoria: Casa Museo Dove: Via Fantasina 8, 25060 Cellatica – Brescia Cosa: visite guidate Ingresso a pagamento, solo visite guidate su prenotazione https://www.fondazionezani.com/casa-museo/
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Beatles day 2020
La trentunesima edizione del Beatles Day a Brescia celebra un compleanno importante, i 50 anni di “Let it be”, in una versione inedita, interamente online. Sul palco virtuale si alterneranno numerosi gruppi e artisti e ci giungono voci di ospiti davvero speciali che arricchiranno l’intera giornata di domenica e anche l’anticipazione in musica di sabato pomeriggio.
I don’t really have a death wish, it just seems that way. (L. Nix)
Tornare dopo un lungo periodo ad “andar per mostre” rappresenta un nuovo passo verso quella cosiddetta normalità che è stata stravolta dall’emergenza sanitaria. Questi mesi, al netto di una pletora di slogan vuoti e falsamente consolatori, hanno mostrato quanto il genere umano in senso lato, con la sua arroganza e incapacità di imparare dagli errori, propri e altrui, sia fragile, transitorio, forse destinato a scomparire. E proprio questa assenza dell’uomo è al centro della ricerca artistica di Lori Nix in mostra negli spazi bresciani di Paci contemporary. La galleria torna a ospitare una personale dell’artista americana, esponente della staged photography, dopo “Another World” (2012), un altro tassello di quell’altro mondo, o meglio di quel mondo alla fine del mondo (umano) che la Nix racconta per immagini da ormai oltre vent’anni. Sulle pareti possiamo ripercorrere il percorso della fotografa, dal 1998 con i lavori dedicati a ciò che conosceva meglio, il Kansas rurale in cui in cui era cresciuta, rivisitato come una moderna Dorothy che alle scarpette ha sostituito la macchina fotografica,
Snow storm, 1998, dalla serie Accidentally Kansas, courtesy Paci contemporary
agli insetti della serie Insecta magnifica, che onestamente è quella che mi coinvolge di meno, fino alle suggestioni, ai silenzi quasi parlanti delle serie Some other places (2000-2002) e Lost (2002-2004),
Bounty, 2004, dalla serie Lost, courtesy Paci contemporary
per arrivare alla rappresentazione del “dopo”, di una realtà post apocalittica in cui in un ambiente ormai urbano, il risultato dell’attività dell’uomo si sgretola sotto gli occhi degli spettatori, liberando spazi che, in alcuni casi, vengono progressivamente riconquistati dalla natura con la serie The City, tuttora in corso. In questo ultimo filone della produzione di Lori Nix emergono i temi cardine della sua poetica, dalla scelta di muoversi lungo una linea sottile che separa l’installazione dalla fotografia, a una componente surreale che permette di identificare che quelli ritratti non sono luoghi reali, non sono il risultato di eventi realmente accaduti, sono piuttosto simboli. L’idea non è riprodurre il vero, quanto per dirla con le stesse parole dell’artista “rappresentare figure del (mio) mondo interiore, non del mondo che esiste là fuori”. Verità o finzione o ancora qualcosa di diverso, con la fotografia che fissa un microcosmo che è al contempo reale e fittizio.
Museum of Art, 2005, dalla serie The City, courtesy Paci contemporaryControl room, 2010, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary
Probabilmente è per questo che osservando Museum of Art, in cui il trionfo della natura è tutto in quelle piante che crescono infiltrandosi tra i muri, negli interstizi, o ancora Control room, in cui domina un senso di decadenza, la sensazione è ben diversa da quella che si prova guardando soggetti analoghi, o molto simili fotografati in tutta la loro terribile realtà da Gerd Ludwig. Non prevale quindi l’angoscia e il senso di desolazione non è opprimente, spesso rotto da singoli dettagli colorati, il vuoto, l’assenza paiono forieri di cambiamento, questa sorta di mancanza può essere letta come fonte di possibilità. Certo è vero, la civilizzazione è in rovina, l’uomo è scomparso, ma non così le sue tracce, non solo sotto forma di meri oggetti di consumo, ma anche dei frutti, ben più duraturi, del suo ingegno, del suo talento. Resta in ogni caso, credo, una domanda in sottofondo, ossia se questo sia davvero il futuro che ci attende o se messe di fronte a queste visioni post-catastrofiche le persone sapranno scegliere un’altra via. Le singole fotografie diventano così, nell’intenzione dell’artista, “spazi sicuri” per riflettere, in particolare sulle sempre più pressanti sfide ambientali .
Una menzione speciale merita la cura dell’allestimento in galleria in cui non sono solo le opere a essere protagoniste, ma l’intero processo creativo di Lori Nix grazie alla presenza di alcune miniature create appositamente – utilizzando materiali comuni – per comporre i minuziosi e complessi diorami che verranno poi fotografati in pellicola con una macchina di grande formato, senza ulteriori interventi o manipolazioni dell’immagine finale.
Anatomy classroom, 2012, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary
Non posso che chiudere con la fotografia che sceglierei se dovessi “condensare” Lori Nix in una ipotetica raccolta di singole opere al capitolo staged photography e raccomandare la visita di questa mostra – a ritmo lento, magari tornando sui propri passi più volte per cogliere sfumature e dettagli.
Circulation Desk, 2012, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary
Piè di pagina Dove: Brescia, Paci contemporary, Via Borgo Pietro Wuhrer 53. http://www.pacicontemporary.com Quando: dal 19 maggio 2020 negli orari di apertura della galleria Come: ingresso libero. Consigliata la prenotazione della visita. Per approfondire: Lori Nix. Another world, VanillaEdizioni (testi in italiano e inglese) in vendita in galleria, Lori Nix: The City, 2013 in lingua inglese
Raccontavo in un altro post dell’impazienza con cui aspetto la locandina di Wonderland Festival ogni autunno, ma certamente è la scoperta del programma a riservare sempre le maggiori sorprese. Ormai è una sorta di rito, aprire il sito, leggere la sezione “Fil rouge” e poi, mano al calendario, scegliere gli spettacoli. Resta però la curiosità di capire come nasce davvero un festival così articolato, capace di condensare in un paio di settimane spettacoli molto diversi eppure legati da un filo sottile, di raccogliere compagnie e attori delle più disparate provenienze superando anche eventuali barriere linguistiche. E questa volta ho sfruttato la disponibilità a sedersi per fare due chiacchiere di Emma Mainetti, Direzione organizzativa e di produzione che mi ha permesso, virtualmente, di accompagnarla dietro le quinte.
Il punto di partenza è il nome. Di chi è stata l’idea di legare il festival a “Wonderland” – tra parentesi un nome azzeccatissimo vista la sensazione di immergersi proprio in un paese delle meraviglie che personalmente mi spinge a tornare, stagione dopo stagione, ad aspettare che si alzi ancora una volta il sipario. E ovviamente questo non può che portare a chiedere come è nato il festival. Il nome Wonderland Festival nasce nel 2012, ma il festival in sé, o almeno il suo primo antenato, era già nato nel 1998 e si chiamava Brescia tra Fiabe e Contaminazioni. Si trattava di un festival biennale, molto diverso da quello che vediamo ora, sicuramente più piccolo, come più piccoli eravamo anche noi. Io infatti non c’ero ancora…l’idea è stata di Davide D’Antonio e Giovanni Zani, fondatori e tuttora direttori di Residenza IDRA. Brescia tra Fiabe e Contaminazioni lavorava sul tema delle fiabe per adulti, con gli anni poi il tema si è ampliato e il festival è diventato annuale, nel 2012, trasformandosi in Wonderland. Il legame con la fiaba si è attenuato ma ci piaceva mantenere un senso legato al “Paese delle Meraviglie” che è un po’ quello che ogni anno cerchiamo di creare. Personalmente sono arrivata a far parte del festival nel 2013 e sono quindi testimone diretto solo delle edizioni dal 2013 in poi. In questi anni il festival è cambiato molto, è cresciuto e si è trasformato ulteriormente. Le edizioni 2012-2013-2014 erano ancora molto lunghe, si parlava di circa uno o due mesi di programmazione limitata ai fine settimana, una via di mezzo tra una piccola stagione e un festival insomma. La svolta è avvenuta nel 2015, il festival è stato riconosciuto dal Ministero dei Beni Culturali, si è spostato da febbraio a novembre e ha preso la forma attuale: due settimane di programmazione intensissima, eventi collaterali, convegni, dopofestival…tutto quello che anche oggi ci caratterizza e che ogni anno si sviluppa sempre di più prendendo nuove forme.
La seconda domanda credo che sia stata posta innumerevoli volte, è un po’ una sorta di “è nato prima l’uovo o la gallina?” applicato ad ogni edizione del festival. Se pensiamo al programma e a quel fil rouge a cui accennavo prima, che costituisce una chiave di lettura, una bussola per orientarsi nel calendario delle rappresentazioni e degli eventi, è spontaneo riflettere su quale sia il fondamento. Qual è il punto di partenza su cui si costruisce la stagione, attorno a cui ruota tutto? In termini di processo creativo, viene insomma prima la selezione del tema – poi riassunto nel claim – o la considerazione degli spettacoli disponibili? O forse è sbagliato già pensare al concetto di “spettacoli disponibili”, perché talvolta nascono già in qualche misura per Wonderland? Anche in questo caso la svolta è stata data dal passaggio ministeriale. Il Ministero richiede agli organizzatori di avere una visione triennale del festival. Così, il primo triennio, dal 2015 al 2017, la decisione è stata quella di lavorare ogni edizione su un tema diverso sul quale costruire un fil rouge attorno a cui far ruotare gli spettacoli. In questo caso ciò che nasce prima è il tema, l’urgenza, l’argomento di cui sentiamo sia in quel momento necessario parlare. I tre temi scelti dalla direzione artistica in quegli anni, che venivano poi tradotti dai claim, erano temi caldi, che sentivamo che il pubblico, gli artisti, la società avevano urgenza di condividere. Pertanto in qualche modo le due cose si contaminano, il tema detta la scelta degli spettacoli ma anche l’urgenza degli artisti che producono spettacoli su determinati temi fa comprendere che cosa sia importante mettere in luce in quel momento…”Imbraccia la tua arma” nel 2015, “Sedotti, traditi, felici” nel 2016, “Speak the truth!”nel 2017…erano tutti temi che sentivamo importanti e che, in alcuni casi, anche associati alle immagini, hanno suscitato qualche polemica. Per il secondo triennio invece, che è iniziato l’anno scorso e arriverà fino al 2020, la scelta della direzione artistica è stata quella di concentrarci su un genere: il teatro immersivo, che abbiamo iniziato a sondare nella scorsa edizione, con approccio più leggero e che era espresso ironicamente da quel “Non la solita minestra…” ad indicare un nuovo modo di fare teatro in cui lo spettatore è un ingrediente importante e che quest’anno esprimiamo con più forza con il nostro interrogativo “Chi è di scena?”. Per quanto riguarda la scelta degli spettacoli avvengono entrambe le cose che dici: sicuramente Davide D’Antonio guarda al panorama artistico con un occhio di riguardo a quelle compagnie e a quegli spettacoli che indagano nella direzione che interessa al festival ma è anche avvenuto che si “sfidassero” gli artisti a produrre lavori ad hoc, come nel caso dello spettacolo “5 minutes” andato in scena nel 2017 in cui abbiamo chiesto a diversi artisti di produrre 5 minuti di performance ispirandosi ai cinque minuti di tempo che vengono dati alla popolazione palestinese per salvarsi dai bombardamenti in arrivo, e abbiamo prodotto un evento unico per Wonderland.
Negli anni gli spettatori hanno assistito a una evidente evoluzione del festival, non solo specchio dei tempi ma di una autentica crescita, maturazione della rassegna che ha saputo uscire dai confini della città, tanto in termini artistici che di fama. Quanto è stato difficile raggiungere questo obiettivo e quanti sono stati gli eventuali cambi di rotta? La parte difficile è stata farsi conoscere dal pubblico, riuscire a farlo arrivare da noi per la prima volta. La programmazione del festival è sempre stata ambiziosa, Idra ha da sempre un occhio attento al panorama artistico contemporaneo nazionale e internazionale e ha portato a Brescia proposte e artisti di grande livello che molte volte non erano mai stati qui. Ad esempio i Motus, che, pur essendo tra le compagnie di punta nel panorama nazionale, sono venuti a Brescia per la prima volta nel 2015, nel nostro piccolo spazio di Vicolo delle Vidazze. La sfida di riuscire a far comprendere al pubblico che il teatro e l’arte performativa contemporanea sono accessibili a tutti e che da noi potevano sperimentarlo è stata la più difficile. Ma tutte le persone che sono venute negli anni sono poi tornate, e sono diventate i nostri migliori comunicatori. Il nostro pubblico è estremamente fidelizzato, quando viene al festival ci torna, difficilmente segue solo uno spettacolo. Il lavoro è stato soprattutto questo, credere in quello che portavamo avanti e non demordere. Siamo cresciuti molto anche grazie al pubblico che ci segue.
Quest’anno una produzione Residenza IDRA in collaborazione con Image Collective per la regia di Davide D’Antonio si intitola Andare verso, un percorso itinerante e un omaggio alla nostra città. Dove sta andando Wonderland Festival? Dove vi immaginate tra, diciamo, cinque anni? Personalmente spero, fedele al nome che ho scelto per il mio blog, anch’esso un inno al cammino, che il viaggio sia ancora molto lungo… Sicuramente lo speriamo anche noi…il Festival è uno dei progetti più importanti che IDRA porta avanti. Dove saremo tra cinque anni è difficile dirlo. Purtroppo anche noi, come tutti coloro che lavorano nella cultura ed in particolare nel teatro, viviamo di costante precarietà. Sogni e visioni si scontrano costantemente con il limite delle prospettive politiche ed economiche. In Italia la prospettiva più lunga in termini di programmazione è triennale, dopo di che tutto si sospende in attesa che venga definito il triennio successivo. Io credo che Wonderland abbia dimostrato negli anni una crescita costante, sia in termini di programmazione che di pubblico e che questo gli garantisca un cammino futuro agli occhi delle istituzioni. Ma nessuno può dirlo con certezza. Quello che possiamo dire con certezza è che noi continueremo a lavorare per portarlo avanti e farlo crescere, come abbiamo fatto fino ad ora.
Anche quest’anno è arrivato il momento di commentare il primo spettacolo che abbiamo scelto nel cartellone di Wonderland Festival. Una doverosa premessa, se fosse stato per me, non lo avremmo visto – sono sempre un po’ sospettosa quando le opere hanno una forte componente musicale – e me ne sarei molto pentita. Invece, grazie a una decisione “del collettivo” mi sono trovata a godere tutti i 60 minuti di Calcinculo, davvero “uno spettacolo dove le parole prendono la forma della musica. Dove la musica prende la forma delle parole”, e applaudire convinta una compagnia che non vedo già l’ora di rivedere all’opera.
Non sono solo canzonette, anzi. Babilonia Teatri porta nello Spazio Teatro Idra una pièce che vive di contaminazioni e rimandi, in cui la musica è elemento essenziale per dare corpo a un autentico fiume di parole, la drammaturgia in prosa, a un flusso disordinato e irrefrenabile che sembra scaturire senza filtri, a tratti senza neppur una logica apparente, irrazionale come le paure e le fobie enumerate da Castellani, che sono invece, ne sono certa, assolutamente reali per molti spettatori.
Contrappunto e melodia, i frammenti delle storie narrate (o forse sarebbe meglio dire di un’unica storia, quella del nostro quotidiano) si sviluppano in un gioco di contraddizioni, i ritornelli pop non nascondono la profondità dei temi trattati, non mascherano l’invio a riflettere, a confrontarsi con temi forti, a (ri)prendere una posizione dopo che i miti e le convinzioni hanno subito l’ineluttabile trascorrere del tempo, come sottolineano gli autori con una delle immagini più poetiche e contemporaneamente più amare dell’intero copione, quella dello scotch usato per fissare i manifesti di Che Guevara sul muro che cede appunto al tempo e alla forza di gravità. Sul palco, volutamente scarno, con pochi elementi per non distogliere l’attenzione dal testo, dalla sua reale comprensione, scorre un collage di miserie umane, di nodi irrisolti. Presente e passato, rock e pop, leggerezza contro il peso delle idee, spensieratezza e parole come pietre, perché non stiamo facendo un altro giro su una giostra a cavalli, ma siamo su un calcinculo con tutte le sue emozioni contrastanti.
In questo vortice si riesce anche a ridere, si è coinvolti in una ricerca delle citazioni, musicali e non, ci si lascia cullare dalle note e dall’illusoria lievità delle mossette della cantante, mentre si viene schiaffeggiati dai testi delle canzoni. L’ironia smorza i toni, ma è uno sguardo disincantato sulla realtà a prevalere, portando anche l’inaspettato concorso di bellezza in cui il pubblico è chiamato a votare ad assumere forme grottesche. Nel complesso uno spettacolo forte, tagliente, che costringe a guardare dentro se stessi oltre che a ciò che ci circonda, che invita a non cadere nella (autoconsolatoria) illusione che “così vanno le cose, così devono andare”, a ritrovare la capacità di sognare e che regala, grazie alla convincente prova d’attore e a un testo da masticare lentamente e digerire, un ottimo esempio di teatro “schierato”.
Piè di pagina Calcinculo di e con Enrico Castellani e Valeria Raimondi e con Luca Scotton Produzione Babilonia Teatri Musiche di Lorenzo Scuda Dove: Spazio teatro IDRA, Festival Wonderland 2019
Per alcuni la primavera è la stagione del nuovo inizio, per me invece è l’autunno visto che riapre la stagione teatrale. E da diversi anni novembre è il mese in cui nei luoghi più diversi della città appaiono i manifesti di Wonderland Festival, immagini in cui cerco di cogliere qualche anteprima del calendario di spettacoli, di quel fil rouge che li lega. Con il passare del tempo il festival teatrale e la sua espressione “grafica” sono diventati sempre più legati, quasi inscindibili e mi sono chiesta spesso come funzioni il processo creativo che porta alla scelta dei materiali per la comunicazione e quanto conti proprio la comunicazione per una rassegna come Wonderland, che ha fatto del suo essere “altro” nel panorama culturale bresciano, e non solo, la propria cifra stilistica. Per soddisfare questa e molte altre curiosità ho deciso di rivolgermi alla fonte, facendomi accompagnare in un viaggio attraverso le locandine da Walter Spelgatti, responsabile Ufficio stampa e comunicazione, che ringrazio sin d’ora per la disponibilità. Partiamo dal 2015, pietra miliare nella storia di Wonderland e anno in cui l’immagine– e la comunicazione in senso lato – diventa assolutamente distintiva, detta il tono e l’atmosfera di quello che il pubblico vedrà sulla scena, e si impone, di pieno diritto, come un elemento del programma.
L’immagine del soldato al pianoforte è davvero forte, così come sarà forte, pressante l’invito che riecheggia nei diversi spettacoli a schierarsi, a prendere posizione, metaforicamente a “imbracciare la propria arma”. Un punto di svolta, a mio parere, nella strategia comunicativa in cui l’elemento grafico, visuale, si sposa con la parola, la sottolinea, la incarna. Da quel momento le locandine del festival vivranno sempre di questa dualità. Lo si vede bene nel 2016 che segna l’inizio della proficua, e perdurante, collaborazione con Dorothy Bhawl che con le sue opere contribuisce a creare la veste esteriore del festival, rendendola assolutamente riconoscibile seppur nuova a ogni stagione.
Dopo l’ironica e grottesca rivisitazione di Alice nel Paese delle Meraviglie è la volta di un’implacabile Regina di Cuori…
… per arrivare al mondo del fumetto con Gargamella nel 2018.
Come nasce questa collaborazione? La collaborazione con Dorothy nasce da un colpo di fulmine. Eravamo alla ricerca della nuova immagine del festival il cui claim era “sedotti, traditi, felici…”. Come al solito lavoravamo di brain storming, scambiandoci impressioni e suggestioni che il tema ci dettava. E come al solito faticavamo a trovare una linea, un’immagine dalla quale ci sentissimo tutti rappresentati e che ci mettesse tutti d’accordo. Fino a che, nelle nostre ricerche, è comparsa lei. L’immagine di Alice che cavalca un particolarissimo Bianconiglio in un’atmosfera da party un po’ decadente ma festoso. Ci rappresentava, esprimeva ciò che volevamo dire in quel momento. Era forte, ironica, artistica. E ci siamo innamorati, di quell’immagine e del suo autore, Dorothy Bhawl, che per la prima volta ci aveva fatto battere il cuore all’unisono. Abbiamo deciso di contattarlo e Dorothy è stato da subito entusiasta di intraprendere questa nuova collaborazione che prosegue e cresce di anno in anno. Non ci siamo più lasciati. Dicevamo prima di come immagine e claim siano l’ottimo completamento del cartellone del festival. Potrei dire quasi una sorta di trailer cinematografico, un antipasto che stuzzica l’appetito. E proprio questa corrispondenza risulta particolarmente affascinante, un esempio di comunicazione perfettamente riuscita. Ma qual è l’elemento di partenza, il testo o la fotografia? E come si arriva alla composizione definitiva, quale è il processo? Dare una successione definita a questo complesso processo non è facile. L’immagine di Dorothy è un’immagine che parla da sé. È comunicativa, fortemente descrittiva e allo stesso tempo veicolo di messaggi importanti. La fotografia aiuta molto nella creazione di un racconto fortemente identitario del festival. Wonderland sta diventando sempre più in festival che segna un percorso, che anticipa dei messaggi forti che diventano “pop” grazie alla perfetta sinergia tra l’arte del fotografare e l’arte del comunicare. Ma la comunicazione non è solo immagine. “Imbraccia la tua arma”, “Sedotti, traditi, felici”, “Speak the truth”, “Non la solita minestra” fino all’ultimissimo “Chi è di scena?”. Ogni parola ha un suo peso, un suo posto specifico. In questi claim nulla è ridondante, la concisione come valore. Anche questo è un elemento ricorrente, identificativo, fortemente studiato. Oppure no? Il claim di Wonderland è assolutamente studiato, pensato in ogni punteggiatura. L’immagine ispira il claim, che allo stesso tempo viene pensato in funzione della direzione artistica degli spettacoli in cartellone. Il “Chi è di scena?” di quest’anno è un esempio che calza perfettamente. Il punto di domanda non è casuale. Nel “richiamo” agli attori dietro il sipario prima dell’inizio dello spettacolo non c’è un punto di domanda. È una chiamata. Noi abbiamo aggiunto un interrogativo. “Chi è di scena?” non è più una chiamata ma una vera e propria richiesta, come una provocazione. Si chiede al pubblico chi vuol essere di scena. O secondo loro chi è di scena, in un festival pensato proprio nell’ottica di un modo di vivere il teatro completamente nuovo: lasciando al pubblico la scelta se entrare nella scena o stare a guardare…
Guardando la splendida immagine scelta per il 2019 – che si lascia decisamente alle spalle i rimandi al paese delle meraviglie, o forse no visto il sottile gioco di specchi e rimandi, restano due domande. Rivedremo mai i personaggi di Lewis Carroll e, soprattutto, quanto conta la comunicazione per una realtà come Wonderland Festival, a Brescia (città che per molto tempo è stata accusata di essere provinciale, nemica della cultura, poco aperta alla sperimentazione e alle novità), in Italia e all’estero? La comunicazione di Wonderland è fondamentale. Ormai l’immagine di Wonderland è diventata iconica. Tra le comunicazioni più attese dell’anno. Il pubblico ci chiede quale sarà la nuova immagine, quale claim abbiamo pensato per provocare la città sul nuovo teatro che ogni anno proponiamo. Siamo consapevoli che il festival è complesso e di non facile “accessibilità”, per questo per il comparto comunicazione è importante trovare la modalità affinché il pubblico si avvicini e si incuriosisca. Una volta superato questo “ostacolo” tutto è in discesa: Wonderland è un festival divertente e coinvolgente. Un festival che porta in scena messaggi attuali e dirompenti. Un’occasione per riflettere e provocare nuove riflessioni. E farlo attraverso il teatro, ci siamo accorti, è l’occasione più bella e soddisfacente che ci sia! Basta avere il coraggio di entrare in scena…
Piè di pagina Wonderland Festival Dove: Brescia, sedi varie Quando: dal 16/11 al 1/12 2019 Come: info e biglietti su http://www.wonderlandfestival.it/prenotazioni/ Dorothy Bhawl è in mostra al Ma.Co.f fino all’11/12/2019 con aperture straordinarie per il pubblico di Wonderland giovedì 21/11 e sabato 30/11 fino alle 21.
La nuova rassegna fotografica in mostra al Ma.co.f. a Brescia, è senz’altro una buona occasione per immergersi in quel clima che Battiato ha ben sintetizzato nella strofa di una canzone, “Strani giorni. Viviamo strani giorni”. L’universo in cui ci trasportano le immagini di Dorothy Bhawl – nome “composto dall’unione di 12 lettere che sono le iniziali di persone a me care rimescolate a formare un nomignolo gradevole, femminile. Dorothy Bhawl insomma non è che un acronimo” come spiega l’artista – è a tratti inquietante, popolato da personaggi bizzarri, eccessivi, grotteschi, disturbanti, talvolta quasi fenomeni da baraccone, ritratti con ironia, senza censure ma anche senza malizia o giudizio morale, e neppure cadendo in quel pietismo/buonismo che mi pare caratterizzi molta della nuova fotografia che pesca i propri protagonisti tra gli “imperfetti”.
E così come sono eccessivi i personaggi ritratti, altrettanto lo sono le situazioni in cui sono collocati, frammenti di un museo dell’orrore che riflette i vizi e le manie della nostra società, veli squarciati sui nodi irrisolti del nostro tempo, sulle contraddizioni di una realtà iperconnessa in cui il valore, di se stessi e degli altri, si misura a suon di like. Temi e motivi che dialogano, si ripetono, si trasformano per dare vita a un immaginario a cavallo tra sogno e incubo, a un lingua al contempo esoterico ed essoterico. Ogni fotografia racconta una micro-storia, mescolando alto e basso, elementi della cultura pop, a mo’ di feticci, esoterici e citazioni più classiche, commedia e tragedia, in una composizione che si sviluppa sui contrasti, sulle giustapposizioni, e tutte le fotografie insieme ne raccontano una più grande in cui, sono certa piacerebbe a tutti poterlo dire, non ci riconosciamo, ma a cui in realtà nessuno di noi riesce completamente a sfuggire.
Proprio la composizione attenta ai più piccoli dettagli, sempre sul medesimo sfondo abbastanza neutro, per fare emergere persone e oggetti, spinge gli spettatori ad avvicinarsi fisicamente all’opera, a cercare di entrarci come se fosse un set cinematografico o di una qualche serie TV. In effetti l’atmosfera generale potrebbe tranquillamente essere quella che si respira in alcuni episodi di Black Mirror. È evidente il lavoro, tanto in sala di posa che in post-produzione, che consente a Dorothy Bhawl di creare delle autentiche narrazioni fissate nell’attimo dello scatto, opere quasi pittoriche, anche grazie all’uso del colore, che rimandano alla tradizione dell’allegoria e dei tableaux vivants. Nel complesso una mostra che offre spunti di riflessione, messaggi da decifrare, oltre che un indubbio piacere per gli occhi per tutti coloro che apprezzano la staged photography con la sua capacità di riscrivere la relazione con il visibile. L’unico aspetto davvero migliorabile è l’illuminazione delle sale che rende in qualche misura difficile apprezzare appieno l’esperienza. I riflessi e le ombre che si creano sulle immagini (e no, non sto parlando di come queste ombre rovinano i selfie) incidono negativamente sulla visione, sul primo impatto costringendo i visitatori a cercare, non sempre trovandolo, l’angolo giusto.
Piè di pagina Dove: Brescia, Ma.co.f – Centro della Fotografia Italiana, Via Moretto 78, Brescia Quando: dal 9/11/2019 al 11/12/2019, da martedì a domenica, 15:00 – 19:00. Come: ingresso libero Per approfondire: profilo Instagram: @dorothybhawl_art
I always say that my work is actually very realistic to me, realistic, not surrealistic, is not fantasy. This is really the world as it is, as I see it. (Sandy Skoglund)
Dopo l’antologica a Torino le opere di Sandy Skoglund tornano in mostra nella sede bresciana di Paci contemporary (in cui, l’ho già detto in precedenza, gli spazi ex industriali sono stati recuperati in maniera sapiente). E come per una celebre serie TV, anche per l’artista statunitense l’inverno è arrivato, a chiudere un lungo percorso, questa volta iniziato nel 2008 con un’inedita e onirica rilettura della primavera (Fresh Hybrid). Si conclude quindi la prima metà di un ciclo, con la possibilità per il pubblico di entrare nella scenografia dell’installazione, di svelarne i minimi dettagli, dai cosiddetti eyeflakes, insoliti fiocchi di neve in ceramica e metallo, ai crumpled foil papers, fogli in alluminio modellati per ricreare un paesaggio invernale. L’esperienza non è però soltanto un’immersione in questa visione invernale, ma piuttosto un viaggio, sulle pareti della galleria, attraverso l’intera evoluzione artistica della fotografa, dai primi lavori “più tradizionali” degli anni Settanta, al progressivo sviluppo della staged photography e al suo straordinario bestiario, fino a questa ultima immagine, un ibrido di tecniche e concetti che è la somma di tutte le sue forme d’arte. Con Winter la scultura digitale entra per la prima volta a pieno titolo nel processo creativo dell’artista che aveva già lavorato e sperimentato con altri materiali, dalla resina alla plastica fino alla ceramica. Cambia lo strumento, ma non il concetto che la scultura sia come uno specchio – inconscio ci ricorda la stessa Skoglung – di colui che la crea, frutto del suo relazionarsi con le figure scolpite.
Un applauso a Paci contemporary per aver portato in Italia sia Winter sia Sandy Skoglund che, in un appuntamento a metà tra la conferenza e la lectio magistralis, ci ha raccontato di sé e della propria arte, della sua volontà di superare i confini della fotografia commerciale, portandola proprio nelle gallerie d’arte, di come la sua cifra stilistica sia la serialità, da intendersi come costante dialogo tra somiglianza e differenza. Con le sue parole la fotografa ha trasportato il pubblico nel suo immaginario, nella sua personale visione del mondo, come palcoscenico, come finzione, offrendo diverse chiavi di lettura, come il gioco dei contrasti (tra l’alto e il basso, inteso spesso nel senso di kitsch o di pop, tra velocità e lentezza, tra uomo e natura e uomo e animale, tra semplice e complesso) che pervade la sua intera produzione e gli stessi metodi di lavoro.
Nell’attesa, personalmente spero non decennale, di un’altra stagione, per scoprire l’universo quasi cinematografico di Sandy Skoglund, sempre sospeso tra verità e finzione, tra razionale e irrazionale, tra “assurdo” e normale” vale davvero la pena di fare tappa a Brescia.