Una sera a teatro: Lo zoo di vetro

I suppose I have found it easier to identify with the characters who verge upon hysteria, who were frightened of life, who were desperate to reach out to another person. But these seemingly fragile people are the strong people really. (T. Williams)

Applausi calorosi, convinti: un bel modo (per me) di chiudere la stagione teatrale.
Lo zoo di vetro è un’opera di quelle che riescono a toccare alcune corde profonde, probabilmente universali, sempre in bilico tra disperazione e speranza, inquietudine e sprazzi quasi rubati di felicità, in un mondo in cui le aspettative paiono destinate a non realizzarsi mai, a trasformarsi in una disillusione a cui nemmeno la fuga sembra capace di porre rimedio.
Così come lo spazio e la distanza non paiono in grado di attenuare la memoria.
Una pièce che si sviluppa sui contrasti che però non esplodono mai veramente, restano in qualche imbrigliati eppure mai sopiti, su emozioni profonde di personaggi intimamente fragili, che ci si chiede come abbiano fatto a non spezzarsi come quell’unicorno di cristallo.
E proprio questa è la sensazione che sono riusciti a trasmettermi gli attori in scena, mai eccessivi nei gesti e nei toni, con una Amanda finalmente misurata e non strabordante e forse proprio per questo più vera nel regalarci il ritratto di una donna “freneticamente aggrappata a un altro tempo” e una Laura che pur senza alcuna zoppia accentuata – proprio come invita a fare l’autore – trasmette tutta la pena di essere (o sentirsi) diversi. Convincente anche l’interpretazione dei protagonisti maschili, ben inseriti nella parte e nel gioco di battute che li avvicina e li contrappone, con Jim che emerge davvero come un bravo giovanotto qualunque.
Un allestimento originale, che pur svecchiandolo non snatura inutilmente il testo, non lo stravolge né lo “tira per la giacchetta”, lasciando che sia Williams a raccontarci la sua storia.
Una lettura che definirei rispettosa ma mai banale, sostenuta dalla prova, come dicevo, di tutti i protagonisti che hanno dimostrato un ottimo affiatamento e una altrettanto ottima padronanza del palcoscenico, pur se purtroppo a tratti l’audio non ha sostenuto appieno la performance.
In effetti proprio il teatro Santa Chiara è stato l’unica nota lievemente stonata.
Il palco risultava troppo piccolo per ospitare l’intera scenografia, frenando la fluidità dei movimenti e, soprattutto, a causa della collocazione (infelice) dello schermo risultava difficile godere appieno delle videoproiezioni.
Così come l’illuminazione che non consentiva di vedere la fotografia-ingrandimento del padre, grande assente e contemporaneamente sempre (ingombrantemente) presente in questo dramma del ricordo.
Un peccato perché proprio l’elemento visivo ha introdotto un tocco originale nella regia di Rajeev Badhan, aggiungendo una pluridimensionalità alla narrazione che non è riuscita a emergere in tutta la sua forza.

Piè di pagina
Lo zoo di vetro
di Tennessee Williams
traduzione di Gerardo Guerrieri
regia, musiche e luci Rajeev Badhan; animazioni Emanuele Kabu
Compagnia Slowmachine
Dove: Teatro Mina Mezzadri Santa Chiara
http://www.centroteatralebresciano.it/
Per approfondire: Lo zoo di vetro, ed. Einaudi*

Una sera a teatro: L’importanza di chiamarsi Ernesto

L’antico e tradizionale rispetto dei vecchi per i giovani è morto e sepolto.

Si sorride e si ride in questo bella rivisitazione di L’importanza di chiamarsi Ernesto che segna l’ennesima buona prova di regia e attoriale del Teatro dell’Elfo nella resa di una pièce che, come ci ricorda la compagnia teatrale, è “commedia frivola per gente seria, con un titolo che sfida i traduttori – che ci hanno provato con Ernesto, Franco, Onesto, Probo senza mai risultare convincenti”. E quindi, proprio sulla scorta di questa considerazione, non sorprende la scelta di mantenere anche il nome del protagonista in inglese.
Gli attori per primi sembrano divertirsi sul palcoscenico in quello che emerge come un rovesciamento paradossale del senso, dei luoghi comuni, dei capisaldi stessi su cui si poggia la società vittoriana, in un’atmosfera di generale irriverenza a cui contribuiscono tanto la scenografia quanto i costumi, per non parlare delle scelte musicali che immergono in una Londra diversa.
L’interpretazione della troupe restituisce nei toni e nei gesti tutta l’ironia, l’umorismo, gli equivoci, ma anche gli elementi grotteschi del testo di Wilde, insieme alla sua leggerezza, con un tocco di modernità, in chiave pop, che non guasta, senza tuttavia snaturare la commedia originale o comprimerne l’interpretazione in direzioni forzate.
Certo la recitazione è a tratti sopra le righe, così come lo sono i movimenti del corpo, senza tuttavia sembrare mai fuori luogo o, come spesso accade, stantia.
La verve dei dialoghi sulla carta rivive nei tempi comici pressoché perfetti degli interpreti, ma anche nella padronanza degli spazi che a tratti pare voler trasportare il pubblico di fronte a un doppio misto.
Le due ore circa di spettacolo passano veloci e forse in questo allestimento si perde parte della critica sociale che caratterizzava l’opera inglese originale (del 1895), quel fondo di denuncia che ha portato l’autore a essere processato proprio nell’anno stesso della prima rappresentazione della pièce, ma da questa serata a teatro si esce certamente rilassati e divertiti, in un certo senso “alleggeriti”.

Piè di pagina
L’importanza di chiamarsi Ernesto
di Oscar Wilde
regia Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
produzione Teatro dell’Elfo
Dove: Teatro Sociale
Quando: 13/02 – 17/02/2019
http://www.centroteatralebresciano.it/

Una sera a teatro: Jekyll

Liberamente ispirato, direi molto molto liberamente ispirato, alla notissima opera di Stevenson, questo spettacolo non mi è parso interamente convincente né dal punto di vista della drammaturgia né da quello della recitazione.
Se è vero, come afferma lo stesso autore, che Jekyll “è un paradigma, una metafora nota a tutti che non smette mai di risignificarsi”, altrettanto vero è che molto del fascino della storia risiede, almeno per me, nel modo in cui è stata scritta e nella voce personalissima dello scrittore che ce la narra.
L’aver portato il protagonista nel mondo della finanza è un’idea di fondo affascinante, che modernizza fortemente l’opera, ma che cozza, stride con la recitazione di Luca Micheletti, che ha un qualcosa di già visto, di maniera nei gesti esagerati, nel tono declamatorio. A tratti sembra di essere in presenza non già di un uomo disturbato, di un io frammentato in maniera irreparabile, ma quasi di una caricatura abbastanza classica del malato che soffre di uno sdoppiamento della personalità.
E in questa estremizzazione dei gesti, dei toni si smarrisce il senso profondo dell’opera, la riflessione amara sul nostro essere tutti, forse, null’altro che un’illusione.
Per questo stesso motivo, non ho apprezzato la scena del confessionale, una nota da spettacolo comico che nulla aggiunge, anzi che “addomestica” la narrazione.
Analogamente, soprattutto nel primo atto, mi è sembrato che a tratti il testo perdesse di mordente, come se si accartocciasse su se stesso, diventando un mero esercizio di stile, per poi riprendere vigore nel secondo atto.
Questo eccesso di verbosità torna prepotente nel finale che avrei voluto più netto, meno costruito così da salutare il pubblico sulla nota più alta, senza dover necessariamente aggiungere altro alla storia.
Tutto ciò premesso lo spettacolo è esteticamente, visivamente di altissimo livello e fosse anche solo per questo motivo merita senz’altro di essere visto, per capire meglio una delle direzioni in cui si sta muovendo il teatro contemporaneo.
Dalla musica ai costumi, alle maschere e agli oggetti di scena fino alle luci tutto concorre a creare immagini potenti, che si fissano nella mente dello spettatore immergendolo in una scenografia gotica.
L’apertura della pièce, in particolare, è perfetta nei colori e nell’atmosfera, come se un dipinto di Magritte prendesse vita sul palco, così come le scene corali di “ballo” traducono in movimento, in coreografia il tema del doppio. Altrettanto riuscita la scelta di creare una scena pluridimensionale in altezza, così come quella di scandire i tempi e separare gli spazi con la reiterata discesa di una quinta che riusciva al tempo stesso ad essere impalpabile ed estremamente fisica.

Piè di pagina
Jekyll
Di Fabrizio Sinisi liberamente ispirato all’opera omonima di Robert Louis Stevenson
regia Daniele Salvo
produzione CTB Centro Teatrale Bresciano
Dove: Teatro Sociale
Quando: 29/01 – 10/02/2019
http://www.centroteatralebresciano.it/

Una sera a teatro: La banalità del male

L’alto concetto del progresso umano è stato privato del suo senso storico e degradato a mero fatto naturale, sicché il figlio è sempre migliore e più saggio del padre e il nipote più libero di pregiudizi del nonno. Alla luce di simili sviluppi, dimenticare è diventato un dovere sacro, la mancanza di esperienza un privilegio e l’ignoranza una garanzia di successo.

Ci sono spettacoli di cui si vorrebbe essere entusiasti a prescindere, perché tratti da opere che si sono amate, che ci hanno fatto riflettere, che in qualche misura ci hanno lasciato qualcosa di duraturo.
Per me La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme di Hannah Arendt è uno dei libri che si dovrebbero inserire in ogni percorso scolastico e che si dovrebbe leggere più volte, perché in ogni fase diversa della propria vita si riesce a cogliere qualche nuovo aspetto. Un libro da leggere senza pregiudizi, senza idee preconcette, senza arroccarsi sulle proprie convinzioni. E proprio con questo spirito credo che ci si debba avvicinare anche alle opere teatrali che ne sono state ricavate, anche se, è innegabile, ci sono sempre delle aspettative.
Nel caso dello spettacolo presentato al Santa Chiara, giunto ormai alla sua quattrocentesima replica dopo essere nato proprio a Brescia, nelle aule del Liceo Calini, le mie aspettative erano senz’altro elevate e per questo sono rimasta abbastanza delusa da una messa in scena che, a mio parere, si è mantenuta troppo in superficie, senza scavare nelle profondità del testo, anzi perdendosi in qualche strizzatina d’occhio non troppo velata alle vicende (politiche) odierne.
Mi è sembrata, e forse quello è sempre stato l’intento, una lettura didascalica, direi quasi scolastica, a tratti declamata in tono stentoreo, riproponendo la gestualità ormai tipizzata dell’insegnante che sale in cattedra.
In effetti proprio l’idea di ricreare un’aula sul palco, con tanto di lavagna come arredo di scena, di mostrarci una Arendt più nella sua veste di insegnante che di giornalista e politologa non mi ha particolarmente convinto, così come la scelta di concentrare l’attenzione sugli aspetti più da libro di storia che propri di quell’analisi critica, filosofica, culturale e sociologica, che si dipana nelle pagine in cui si racconta sì di un uomo e del suo processo, ma anche dell’umanità in generale.
In tutto ciò va comunque riconosciuto il merito a Paola Bigatto che, pur avendo sostenuto da sola l’intero spettacolo, alla fine si presta, anzi invita il pubblico al dialogo e al confronto, come antidoto alla “assenza di pensiero” che la Arendt aveva riscontrato in Eichmann, incapace di riconoscere quell’altro da sé che ci chiama in causa, che ci mette a confronto con le nostre responsabilità.

Piè di pagina
La banalità del male
adattamento di Paola Bigatto
con Paola Bigatto
produzione CTB Centro Teatrale Bresciano
Dove: Teatro Mina Mezzadri Santa Chiara, Brescia
Quando: 26-27 gennaio 2019
http://www.centroteatralebresciano.it/
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, ed. Feltrinelli* , anche in versione per Kindle*

Una sera a teatro: Sempre domenica

Un’altra sera a teatro, ancora una volta in un luogo, l’ex Chiesa di Santa Chiara Vecchia, un tempo adibito a ben altra funzione, come testimonia l’affresco sul soffitto per una pièce dedicata al difficile mondo del lavoro, con i racconti dei diversi personaggi a cui danno voce i sei attori sul palco.
Lo spettacolo parte un po’ in tono dimesso, quasi a fatica, ma si riprende ben presto, con una narrazione che pur offrendo molti, moltissimi spunti di riflessione riesce anche a far sorridere, grazie alla bravura dei protagonisti, capaci di “darsi il la” e di sovrapporsi senza che uno prevarichi l’altro.
Qualcuno ha scritto che Sempre domenica è un lavoro sul lavoro e direi che in questa descrizione c’è tutto il senso dell’opera che riesce a trasformarsi in una sorta di specchio di una generazione.
Le vicende che si sviluppano sul palco ci parlano del lavoro che sovente manca e spinge altrove, magari solo per scoprire che quell’altrove non è meglio di ciò che si è lasciato alle spalle, del lavoro che troppo spesso non nobilita affatto l’uomo, ma lo imprigiona in una serie di azioni di cui si stenta a ritrovare il senso, come altrettanto poco senso hanno le domande che si ripetono nei colloqui di selezione del personale, del lavoro, anzi del travagliare, che toglie spazio a tutto il resto, alla vita, alla possibilità di continuare a seguire le proprie passioni.
Risuonano solo le voci dei vinti.
In un quadro così cupo si cerca un barlume di speranza, che sia nelle parole di chi ancora ama ciò che fa o di chi crede fortemente di potersi reinventare o di poter cambiare lo stato delle cose o che riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno, accontentandosi.
Ma, in fondo, anche queste sono voci dei vinti, perché i progetti di cambiamento restano appunto solo progetti, se non addirittura sogni irrealizzabili, e quello che poteva essere l’accontentarsi, nel senso più alto del termine, diventa invece un mero rassegnarsi.
Pian piano le storie individuali diventano Storie in una non-epopea, in uno spettacolo corale, in cui proprio la coralità, l’universalità di alcune situazioni, di alcuni sentimenti diventano protagoniste, e dove il testo predomina sul gesto, in una scenografia volutamente ridotta ai minimi termini, senza effetti speciali o inutili trivialità.
Forse è però questa assenza, che personalmente non ho potuto che apprezzare, ad avere spinto gli studenti di un qualche istituto superiore presenti in sala ad occuparsi più dei loro telefonini e meno, molto meno, della trama che si dipanava davanti ai loro occhi.

Piè di pagina
Sempre domenica drammaturgia di Collettivo Controcanto
Dove: Teatro Mina Mezzadri Santa Chiara
Quando: 10 dicembre 2018
http://www.centroteatralebresciano.it/

Una sera a teatro: L’anima buona del Sezuan

Debutto al Teatro Sociale di Brescia per questa rilettura di un’opera di Bertold Brecht che apre anche la stagione di prosa 2018/2019.

Inizio subito col dire che lo spettacolo non mi ha convinto appieno. Non perché si tratti di una rielaborazione di un classico – mi interessa, infatti, sempre uno sguardo nuovo con cui confrontarmi – quanto piuttosto per alcune scelte di elaborazione drammaturgica che mi hanno lasciato perplessa.
L’inserimento degli elementi della commedia dell’arte mi è parso a tratti forzato, innaturale, soprattutto per quanto riguarda alcuni personaggi, che sono stati caricati di accenti al limite del grottesco, strappando forse un sorriso in più al pubblico, ma stemperando eccessivamente l’amarezza di fondo della fiaba narrata da Brecht in cui solo con un completo, e doloroso sdoppiamento, si riesce a salvare un po’ di bontà in una realtà che, ai tempi del racconto, così come in quelli dell’autore e ai nostri giorni, sembra voler soffocare ogni (nobile) sentimento.
Mi sono parsi eccessivi anche i toni quasi caricaturali in diversi passaggi e la gestualità esagerata di alcune delle protagoniste femminili (penso in particolare alla padrona di casa Mi Tzü e alla signora Yang), elementi di disturbo che nulla hanno aggiunto al dipanarsi di una storia già intrinsecamente didascalica. E proprio sul dipanarsi della storia, o meglio sul ritmo della rappresentazione scenica, credo si dovrebbe concentrare ancora il lavoro della compagnia, perché in particolare il primo tempo è disomogeneo, con scene dilatate a dismisura nel tempo che portano a un abbastanza naturale calo dell’attenzione. Ci sono spettacoli in cui tre ore sembrano volare, ma non è questo il caso, almeno per me.
L’ultima annotazione, su ciò che probabilmente ho capito e apprezzato di meno, riguarda l’inserimento di cadenze dialettali marcate (che ho visto definire come regionalismi) quasi a casaccio nel copione e che, soprattutto nel finale, smontano quel crescendo che nell’originale sfocia in un sentito appello al pubblico, forse all’intero genere umano, mentre in questa rilettura si diluisce in quella che appare più la conclusione di uno spettacolo di burattini.

“Nel nostro paese
Non dovrebbero esserci sere tristi
E nemmeno alti ponti sul fiume.
Anche all’ora tra la notte
e il mattino
E gli inverni tanto lunghi, sono pericolosi.
Giacché nella miseria
Basta un’inezia
Perché l’uomo si liberi dall’intollerabile vita.”

E siccome non dovrebbero davvero esserci sere tristi, vale sempre la pena andare a teatro, scoprire nuovi orizzonti, rivedere storie conosciute con occhi nuovi e da questo punto di vista la produzione del CTB Centro Teatrale Bresciano in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione offre sicuramente degli spunti interessanti, come l’uso delle maschere , che mi sembra possa essere una buona lettura dello “straniamento brechtiano”, come hanno sottolineato Elena Bucci e Marco Sgrosso nelle loro note di regia.
Ho analogamente apprezzato la scenografia minimalista, che si sposava perfettamente con l’uso delle luci, capace di trasformare gli spazi in livelli di lettura, in diverse prospettive, sottolineate a tratti dalla colonna sonora originale, così come di dettare un ritmo a livello visivo.

 

Piè di pagina
L’anima buona del Sezuan di Berthold Brecht
Traduzione di Roberto Menin
Progetto, elaborazione drammaturgica Elena Bucci, Marco Sgrosso
Dove: Teatro Sociale, Brescia
Quando: dal 23 ottobre al 4 novembre 2018
http://www.centroteatralebresciano.it/
L’opera originale in edizione Einaudi*, anche in versione per Kindle *