Christian Floquet e il suo “coup d’œil”

Conosco Christian Floquet in tante diverse vesti. La prima è sicuramente come traduttore da molti anni, la seconda, ormai da qualche anno, come collega all’università, la terza, senz’altro più recente, come fotografo. In occasione della sua personale allo Spazio RT gli ho chiesto di sedersi con me e di rispondere a qualche curiosità sulla sua passione, su come nascono i suoi scatti, sulle “assenze” che popolano questa mostra.

D. Nella tua conversazione con Elisabetta Longari, curatrice della tua mostra Coup d’œil che apre i battenti a Milano, racconti delle prime foto che hai scattato a Parigi, ancora bambino, poi di quelle in Africa e ancora in giro per il mondo. All’inizio, mi sembra di capire, ti concentravi soprattutto sui paesaggi, le tue, insomma, erano delle “foto di viaggio”. Quando, se c’è stato un momento preciso, e perché hai deciso di fissare il tuo sguardo e l’obiettivo sui particolari architettonici, urbanistici forse più che urbani, togliendo quasi ogni sfondo, privando, in un certo senso gli edifici e le strutture del loro contesto più ampio, di una loro specifica collocazione che permettesse al pubblico, se vogliamo, di riconoscerne l’indirizzo.

A Parigi nella seconda metà degli anni Ottanta. La città era tutto un cantiere di grandi opere durante la presidenza di François Mitterrand; tanto per citarne tre: la Grande Arche de la Défense, il Musée d’Orsay e la Pyramide du Louvre. Sempre a metà degli anni Ottanta sono tornato a Buenos Aires e ho visto una città in piena evoluzione dal punto di vista architettonico e anche lì devo dire che mi sono molto divertito a fotografare le architetture.
In quanto al perché della scelta dei particolari forse la voglia di approfondire, la ricerca del dettaglio che sfugge all’osservatore distratto. O anche perché la foto del monumento celebre la fanno tutti e la trovo in cartolina, probabilmente più bella di quella che farei io, ma la foto del dettaglio di quel monumento saremo in pochi a farla, penso.

D: Vista la tua passione per l’andare a zonzo (traduzione, che non mi ha mai completamente convinto, dell’atteggiamento del flâneur baudleriano) con la macchina fotografica a portata di mano, mi chiedo quanta preparazione, quante ore di studio a tavolino si nascondano dietro gli scatti. Oppure se si tratti davvero, come lascerebbe intendere il titolo della mostra, di immagini che riflettono un colpo d’occhio in un certo senso imprevisto, casuale, che fissano un istante senza, diciamo, alcun tipo di premeditazione.

Se premeditazione c’è, a volte, è soltanto sul luogo dove andare a fare le fotografie. Poi una volta lì cerco, guardo, osservo e poi se c’è il coup d’œil allora scatta anche il pulsante della macchina fotografica.

D. In ogni fotografia c’è poco o tanto di chi l’ha scattata. Cosa dice di te la scelta, immagino molto ponderata, comunque insistita, di eliminare la presenza fisica dell’essere umano (tutt’al più ripreso a sua volta mentre scatta) quando i soggetti sono proprio opere che rappresentano il frutto di questa presenza umana sulla terra?

Credo che dica che sono timido (sto migliorando però) e discreto, quindi non mi va di impormi agli altri con la presenza, spesso ingombrante, della mia macchina fotografica. Se guardiamo le poche foto nelle quali ci sono delle persone, queste sono ritratte di profilo mentre sono intente a fare altro, o di spalle, mentre si allontanano. Però ogni tanto qualche ritratto lo faccio e mi dicono che sono belli.

D. Continuando a parlare di assenza, mi incuriosisce il fatto che le fotografie non abbiano un titolo che le renda maggiormente distinguibili.

È una scelta fatta con Elisabetta Longari, ma mi sono ispirato anche a tanti grandi fotografi che spesso non danno un titolo alle fotografie, ma citano solo il luogo e l’anno.
Nel 2019, in un incontro intitolato “Fotografia e traduzione”, a cura di Franca Cavagnoli, anche Ferdinando Scianna aveva detto che dare un titolo a una fotografia è inutile. Qualche volta do un sottotitolo. Penso che continuerò a non dar loro dei titoli.

D. Come ultima domanda pensavo di chiederti quale scatto, se dovessi ripeterlo, realizzeresti in modo diverso e quale invece preferisci, ovviamente dopo averti rivelato il mio. Il problema è che non riesco a scegliere tre lo scampolo di cielo che si intravede nella foto del 2016 a Londra e la serie di colonne rosse a Milano che mi hanno ricordato l’infinita processione, in chiave meneghina, di tori del Fushimi Inari, tanto per tornare sul tema del viaggio. Ad ogni modo quali fotografie vuoi raccontarci?

Non mi piace ripetere uno scatto, anche perché non potrà mai essere uguale all’altro (la luce, le condizioni climatiche, il mio stato d’animo, non saranno mai gli stessi).
A proposito di non dare un titolo, di Londra 2016 ce ne sono tre! Ma ho capito a quale ti riferisci.

Non ho una foto preferita, sarebbe come chiedere a un padre qual è il figlio prediletto, tuttavia se dovessi indicarne un paio di quelle sul catalogo direi la famiglia nel tempio di Ryoan-ji a Kyoto perché è rara (appunto per la presenza umana); poi quella di Quino, il mio Labrador, in mezzo ai CD sparsi sul pavimento, perché nonostante sembri stata composta, è in realtà un’istantanea, appunto un coup d’œil; last but not least quella dell’immobile taggato a Milano perché più la guardo, più scopro dettagli, e anche per il gioco di luci e ombre, che fanno da contraltare ai tag.
Come vedi ho scelto tre foto in bianco e nero, e tutte e tre “contestualizzate”. Niente dettagli di architettura, niente colori.

Per scoprire tutti i 35 scatti, compreso quello di Quino, che ho appositamente scelto di non pubblicare, perché va visto di persona, avvicinandosi per guardarne il protagonista negli occhi, non mi resta che ricordare che la mostra resterà aperta fino al prossimo 6 novembre.

Piè di pagina
Dove: Milano, Spazio RT, Via Fatebenefratelli 34
Quando: fino al 6 novembre, da martedì a sabato dalle 9:30 alle 13:30 e dalle 15:00 alle 19:00, il lunedì dalle 15:00 alle 19:00
Come: ingresso gratuito

Fondazione Palazzo Magnani e le sue “opere al telefono”: un esperimento di successo

Prendiamo True Fictions, Fotografia visionaria dagli anni ‘70 ad oggi, una delle mostre che il collettivo indirezionenoncasuale avrebbe tanto voluto visitare e che invece rimarrà chiusa fino almeno al 3 di dicembre, uniamoci la proposta alternativa e originale degli organizzatori, una telefonata per chiacchierare di arte e sull’arte e per scoprire una delle opere esposte scelta dal catalogo online, misceliamo il tutto con la competenza, la simpatia e l’evidente entusiasmo di chi “era al di là della linea” e abbiamo trovato la ricetta per trascorrere un tardo pomeriggio diverso, interessante e arricchente, stimolante e colmo di bellezza.
Non la solita galleria di foto, quindi, e neppure una voce registrata che ci guida in una visita standardizzata, ma una autentica interazione da modulare sulla base della propria curiosità.

Il progetto
Non solo fiabe al telefono, nel solco di Gianni Rodari, ma la possibilità di conversare con un esperto, per entrare, grazie alle sue parole, ma anche al suo sguardo unico – perché chi risponde alla nostra chiamata potrebbe essere un addetto ai progetti espositivi oppure, come nel nostro caso, la persona di riferimento per audience development e social media – di entrare nell’opera, soffermandosi sulle tecniche utilizzate o sulla vita degli artisti, sulle immagini e la loro storia, sull’idea da cui sono scaturite.
Il tutto, magari chiudendo un attimo gli occhi per immaginare di essere a Reggio Emilia, in un gioco in cui verità e finzione si confondono, perché, tutto sommato, stiamo parlando di true fiction.
Come vivere questa esperienza?
Ogni mercoledì, fino al 23 dicembre, dalle ore 17 .00 alle 19.00 basta sfogliare il catalogo presente sul sito, scegliere l’immagine e chiamare il numero 0522/444446.
E se la linea è sempre occupata? Nessun problema, gli organizzatori hanno pensato anche a questa eventualità ed è possibile compilare un modulo chiedendo di essere richiamati (e posso assicurarvi che il servizio funziona!).

La “mia” opera al telefono
Guardando ai post precedenti non è certo una sorpresa che una mostra dedicata alla staged photography fosse ai nostri primi posti nell’elenco degli appuntamenti da non perdere per il 2020, per rivedere alcuni artisti che amiamo e, soprattutto, per conoscerne di nuovi.
Ammettiamo la scelta dell’opera non è stata facile, quindi abbiamo deciso di viaggiare sotto tutti i punti di vista, nello spazio e nel tempo, selezionando Ann Bolyen del fotografo coreano Chan-Hyo Bae, appartenente al ciclo Existing in Costume.

Il primo aspetto che ci ha colpito è senz’altro l’estetica particolare e la cura dei dettagli, unita a una certa teatralità della messa in scena che la nostra guida, Elvira Ponzo, non ha mancato di ben sottolineare.
In questo ciclo Bae si cala, letteralmente, nei panni dei personaggi che hanno fatto la storia inglese, spesso morti tragicamente, si traveste e si trasforma nel personaggio principale delle sue opere, con un mimetismo che però, nei particolari come le mani, lascia sempre trasparire la sua reale identità.
È stato interessante scoprire come la scelta del crossdressing, del travestimento appunto, sia stata per il fotografo la risposta alla difficoltà di rapportarsi con la società inglese, londinese più precisamente, che sembrava incapace di accoglierlo al suo interno, di non farlo sentire escluso.
Questioni di genere, cultura, isolamento, stereotipi sono tutti elementi esplorati nell’intero progetto Existing in Costume, nato anche come reazione contro un pregiudizio strisciante che voleva che gli uomini orientali fossero più “femminili” rispetto ai loro omologhi occidentali.
Da qui la scelta di Bae di spingere questa idea fino alle sue estreme conseguenze, posando in una varietà di costumi storici occidentali femminili, per integrarsi, fittiziamente, in una storia e in una società da cui si sentiva emarginato.

Per concludere questa conversazione telefonica, condita da tutta una serie di riferimenti incrociati alle altre opere esposte, ci è sembrata un riuscitissimo aperitivo, che ci ha invogliato ancora di più a visitare le sale di Palazzo Magnani non appena riaprirà le porte.

Mostra – Erwin Olaf, Paci contemporary, Brescia

I want you to come into my exhibition with a certain mood and come out with a different one – possibly enriched. I think this is the task of art. When art is hanged on the wall and people you don’t know are touched by it … I think that’s the greatest recognition someone can have in life! (E. Olaf)

Credo di poter dire che Erwin Olaf con me ha colpito nel segno, perché sono uscita dalla mostra perfettamente curata da Paci contemporary sicuramente arricchita e con un nuovo, diverso, sicuramente maggiore, apprezzamento per la fotografia di ritratto, un genere che non ho mai particolarmente amato.

Ma come resistere agli scatti di Olaf, alla loro capacità di gettare lo spettatore in una storia, talvolta soltanto accennata, spesso tutta da interpretare, sospesa tra passato e presente, tra sogno e realtà, tra finzione e verità?

Julius Caesar, † 44 BC, serie “Royal Blood”, 2000

Basta uno sguardo alle opere della serie Royal Blood (2000) in cui la storia, lontana e più recente, assume i tratti di un fatto di cronaca nera o di una inquietante campagna pubblicitaria.
Fotografie ad effetto high-gloss, frutto di un grande lavoro di post-editing, con Photoshop che diventa sempre più un compagno di lavoro essenziale per la gestione del colore. Diverse sfumature di bianco dunque, ma sono sono gli sguardi a dominare, occhi cerchiati di rosso che fissano lo spettatore, con un’espressione spesso di condanna. Una serie in cui, come hanno ben scritto alcuni critici, “l’estetica immacolata della fotografia di moda contemporanea si traduce in immagini che sono allo stesso tempo squisite e inquietanti”.

Public Bath, serie “Berlin”, 2012

Oppure osserviamo Public bath, della serie Berlin (2012), in assoluto una delle mie fotografie preferite di questo artista, probabilmente l’immagine che mi ha fatto più innamorare della sua opera e che ho rivisto esposta con immenso piacere. Chi è quel clown, cosa rappresenta, è reale oppure no e, soprattutto, quale sarà il contenuto di quella lettera, sigillata con la ceralacca? Buone o cattive notizie?
Strano pensare come due serie di scatti che rimandano al tema del viaggio, la già citata Berlin e Shangai (2017), siano in realtà progetti realizzati per gran parte in studio. Dovremo infatti attendere fino al 2018 con Palm Springs per vedere il fotografo abbandonare le scenografie, uscire all’esterno rinunciando, almeno parzialmente, al ferreo controllo su ogni singolo aspetto delle immagini, che risultano comunque perfettamente assemblate.

Keyhole 7, della serie “Keyhole”, 2011- 2013

Spesso nelle fotografie di Olaf si percepisce un profondo senso di straniamento, di tristezza e solitudine, addirittura di infelicità, tanto nelle espressioni e nelle pose dei soggetti ritratti, che nell’atmosfera generale, nella composizione, gli scatti riflettono la difficoltà di stare al mondo, ma non c’è in realtà tanto la volontà di fotografare questa infelicità, né di catturare momenti più o meno disturbanti, ma piuttosto di fissare emozione autentiche dell’artista, scorci del suo mondo interiore che si lasciano intravedere come da un buco della serratura o come sfasamenti, crepe, marcate o sottili, in un mondo all’apparenza perfetto.

I temi più cari all’artista, humor e critica sociale, grandissima padronanza delle luci, dei mezzi tecnici e delle tecniche di elaborazione digitale, riferimenti culturali e pittorici o ancora cinematografici, tutto questo e molto altro ancora è ciò che si riesce a leggere nelle immagini in questa mostra che per un momento ho temuto non sarebbe mai riuscita ad aprire le porte.
Invece eccomi qui a cercare di trasmetterne in queste righe la magia e ad applaudire il gallerista (e i suoi collaboratori) a cui va sicuramente riconosciuto il merito non solo di aver fortemente voluto portare in Italia un altro esempio di grande fotografia contemporanea, ma di aver creato un’autentica panoramica del percorso artistico di Erwin Olaf, dagli esordi fino all’ultimo progetto per consentire a ciascuno dei visitatori di fare proprie, almeno per un attimo, le parole del fotografo “voglio creare il mio mondo, non voglio seguire la realtà, perché mi piace sognare la mia vita”.

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Dove: Brescia, Paci contemporary, Via Borgo Pietro Wuhrer 53.
Quando: dal 23 ottobre 2020 al 27 febbraio 2021 negli orari di apertura della galleria
Come: ingresso libero

Festival della Fotografia Etica 2020 – Circuito OFF

Aprire le porte, spalancare i portoni, per andare oltre…

Sulle pagine del blog abbiamo già visitato il Festival della Fotografia Etica, ora è arrivato il momento di passare al Circuito OFF che nelle altre edizioni avevo trascurato. Per raccontarlo ho scelto ancora una volta di stilare una classifica delle mostre che mi hanno più colpito.
Stili diversi per temi diversi, ma un sottile fil rouge a legare tutti i lavori, la capacità di portarmi direttamente in paesi lontani, di farmi uscire per un attimo dai confini nazionali che, forse in maniera irrazionale, iniziano a stare un po’ stretti.

Il progetto fotografico di Valter Darbe, I was my husband, trasporta i visitatori in un’India diversa da quella così colorata che tutti siamo abituati a vedere.
Gli scatti in bianco e nero, ospitati nello Spazio Castellotti, raccontano la storia delle vedove indiane, della loro identità perduta alla morte del coniuge, come se la loro intera vita perdesse di rilevanza, come se davvero l’esistenza di ciascuna di loro dovesse esaurirsi in un lutto interminabile. “Ero mio marito”, senza possibilità di essere nulla di diverso, nulla di più, nulla prima o dopo.
L’occhio del fotografo, sempre rispettoso, porta in primo piano la condizione di queste donne che hanno perso praticamente tutto, che sono spinte ai margini della società, reiterando un fenomeno di cui ho sentito spesso parlare anche durante la mia scoperta del subcontinente indiano, ma che onestamente non riesco a comprendere.
Nei ritratti gli occhi parlano chiamando ciascuno dei visitatori a riflettere sul proprio posto nel mondo, tristezza e rassegnazione sembrano quasi trasudare dalla carta stampata, vulnerabilità, solitudine ovunque, anche nelle scene corali, infatti, ogni donna è come se restasse comunque sola.

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Altro paese che ho amato moltissimo, il Guatemala, è il protagonista del reportage di Andrea Maini. Qui ci si immerge nei colori, nelle sensazioni della festa dei morti, il dia de los muertos, in cui in realtà si celebra la vita.
Le fotografie esposte sulle pareti bianche del Teatro alle Vigne, così da far risaltare ancora di più tutte le sfumature dei verdi e dei gialli, dei blu e dei rosa, così saturi da sembrare irreali eppure così reali per chi ha avuto la fortuna di partecipare a una festa improvvisata, magari sulle rive del lago Atitlan, sono un omaggio alla tradizione e a un popolo intero, che sceglie di ricordare i propri cari facendo volare aquiloni, adornando le tombe dei defunti, ma anche semplicemente trascorrendo la giornata al cimitero, per sentirsi più vicini a coloro che se ne sono andati e che, si crede, tornino proprio in quel giorno per “controllare come vanno le cose sulla terra”.

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Un altro viaggio, questa volta verso l’Etiopia, alla scoperta delle pitture corporee del gruppo etnico dei Surma.
Le fotografie di Enrico Madini che compongono la serie Surma Bodypainting trovano una collocazione ideale tra i volumi della libreria Libraccio, coinvolgendo il pubblico in una sorta di caccia al tesoro tra i diversi scaffali per scovare tutte le opere.
Ancora una volta sono i colori ad essere protagonisti, dimostrando come questa le decorazioni pittoriche sui corpi siano davvero una delle prime – e probabilmente più autentiche, grazie anche alle materie prime “povere” da cui nascono – forme di espressione artistica dell’umanità.

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Dove: Lodi, sedi varie
Quando: ogni sabato e domenica dal 26 settembre al 25 ottobre, dalle 9.30 alle 20
Come: le mostre del circuito OFF sono visitabili gratuitamente nei giorni del Festival e negli spazi ed esercizi aperti al pubblico durante la settimana secondo il rispettivo orario di apertura.
https://www.festivaldellafotografiaetica.it/

Festival della Fotografia Etica 2020

La nuova normalità è senz’altro diversa da quella che ci saremmo aspettati anche solo a inizio anno, le mascherine e il gel disinfettante, gli ingressi contingentati, le mille precauzioni che sono diventate parte del nostro quotidiano, tutto è cambiato insomma, ma non la curiosità di vedere la nuova edizione del Festival della Fotografia Etica a Lodi, che, non a caso, ha scelto come sottotitolo di questa undicesima – e onestamente insperata – edizione “Sguardi sul nuovo mondo”.
Nel 2018 scrivevo “In questo grande contenitore di immagini, legate da alcuni fili conduttori, mi sono volutamente persa, lasciandomi avvolgere e coinvolgere dalle fotografie esposte, uscendo dalla mia comfort zone perché non c’è miglior mezzo che vedere per comprendere, per gettare qualche spiraglio di luce su mondi spesso lontani, a tratti spaventosi proprio perché sconosciuti”. E in questo clima di cambiamento è ancora più necessario perdersi nelle fotografie esposte per ritrovarsi, per conoscere, per comprendere.
Come di consueto accanto al festival si svolge FFE-OFF, un circuito di mostre che, come vi racconterò nel prossimo post, ha regalato qualche emozione, mentre la vera novità sono state le gallerie en plein air, nei parchi e giardini cittadini, ma anche in alcuni cortili, come quello del Palazzo della Provincia.
Mi sono chiesta come raccontare le mille facce del festival e ho deciso di scegliere le quattro mostre (più una) che mi hanno stupito, affascinato, fatto riflettere, emozionato…

Herons and otner birds compete for the remains of fish, after that fishermen have cleaned their fishing net. Beach of Bancarios, Rio de Janeiro, Brazil – 11/06/2014 -Bancario is located in the north-east of Ilha do Governador, the largest of the islands of the Guanabara Bay. Many of the fishermen who live in the inner part of the bay using this beach as a landing place, to stock up on food or fuel, or to rest when they stay at sea for more than one day.

Al primo posto della mia personalissima classifica il reportage vincitore nella categoria Terra Madre del World Report Award. Dario de Dominicis, con la sua To the left of Christ , ci porta in Brasile, nella baia di Guanabara, il porto naturale di Rio de Janeiro, nella vita dei pescatori locali, nella loro lotta contro le conseguenze e le limitazioni imposte dalla progressiva e massiccia industrializzazione dell’area.
Malattie e inquinamento, danni permanenti all’ecosistema, impoverimento e avanzata della criminalità organizzata, sono questi gli elementi della storia raccontata dal fotografo, in un bianco e nero aspro, che non lascia spazio né al sensazionalismo né alla retorica.
In questa esposizione ho trovato alcune delle immagini più poetiche dell’intero festival.

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Guardando gli scatti della serie Dispossessed di Mary Turner, vincitrice della categoria Spotlight, si ha l’impressione a tratti di entrare in un quadro di Hopper, con le sue atmosfere rarefatte e quel senso di solitudine che fuoriesce letteralmente dalla tela, e a tratti di osservare una pellicola neorealista.
Il racconto della vita nel nord-est dell’Inghilterra, dopo la crisi dell’industria mineraria, si sviluppa in una “poetica delle piccole cose”, con uno sguardo lucido, pur se quasi affettuoso, sulle difficoltà del quotidiano in una zona che pare destinata a cadere in un’ancora maggiore depressione economica a seguito della pandemia.

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Photo stand for visitors. DEFEXPO 2020 in Lucknow, India

Il terzo gradino del mio podio spetta a Nikita Teryoshin che con il reportage Nothing Personal – the Back Office of War , vincitore della categoria Master, conduce il pubblico letteralmente dietro le quinte delle principali fiere nel cosiddetto settore della difesa.
Colori forti, geometrie accentuate e un’estetica pop sono gli elementi scelti dal fotografo per il suo racconto delle incongruenze e degli eccessi del business della guerra, dove i morti sono manichini o pixel su uno schermo e gli stand sembrano quelli di un parco giochi per adulti, con un intero corredo di spazi per i selfie, fuochi d’artificio, slogan motivazionali e ricchi buffet.

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Bob enjoys a dip in the ocean, breakfasts of caviar and biweekly foot massages on the beach. A charmed life, perhaps, but you could say he deserves it: Bob spends a lot of his time interacting with schoolchildren on his native island of Curaçao, serving as an emissary for conservation.Bob, you see, is a flamingo.

Un soffio di leggerezza, un simpatico protagonista, una storia in cui le parole sono parte essenziale della galleria fotografica.
Strappano davvero molti sorrisi le immagini di Jasper Doest che con Flamingo Bob racconta le avventure del fenicottero Bob, il pennuto divenuto simbolo di un ente benefico per la conservazione della fauna selvatica sull’isola di Curaçao.
Non useremo l’espressione “bellissimo esempio di storytelling” in cui si mescolano diversi linguaggi narrativi, perché uno dei componenti del collettivo indirezionenoncasuale rabbrividisce ogni volta che sente quel termine, ma questa mostra è davvero una bella favola.

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Una menzione speciale spetta all’intera sezione “Uno sguardo sul nuovo mondo” che si articola in cinque percorsi, per raccontare i molteplici aspetti della storia recente, in giro per il mondo, attraverso gli occhi e le lenti di diversi fotografi, “un’area espositiva per conoscere la realtà, per comprenderla e cambiarla” nelle intenzioni degli organizzatori.
Fotografie per riflettere, fotografie per non dimenticare.

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Dove: Lodi, sedi varie
Quando: ogni sabato e domenica dal 26 settembre al 25 ottobre, dalle 9.30 alle 20
Come: biglietto intero 15 euro (+ 1 euro di commissione) acquistabile online. Ogni weekend sarà comunque possibile acquistare il biglietto anche in biglietteria al costo di 19€.
https://www.festivaldellafotografiaetica.it/

Mostra – Piccoli oltraggi a grandi opere, Eros Mauroner, Brescia

La visita alla nuova rassegna al Ma.co.f. a Brescia ha rappresentato la prima reale uscita dopo la quarantena, quindi ha segnato una sorta di punto di svolta.
Devo però ammettere che non ero partita con un grande entusiasmo, forse perché la locandina non mi aveva catturato particolarmente, forse perché ero convinta che l’altra mostra in programma (di cui scriverò a breve) mi avrebbe affascinato maggiormente. A posteriori, posso dire di essere entrata nella vecchia sede del tribunale bresciano con un’idea e di esserne uscita con un’altra, opposta.

Tutto è iniziato da una melagrana – ci ha raccontato Eros Mauroner, prestatosi gentilmente a condurre i visitatori tra le diverse sale – e da quel particolare, contemporaneamente centrale e marginale di un dipinto, è nata l’ispirazione per un progetto articolato che “cerca di stabilire un nesso di continuità tra l’osservatore e l’opera d’arte, attraverso la dissacrazione e la provocazione”, da qui quel concetto di oltraggio, anche se credo si possa parlare altrettanto correttamente di o-m/ltr-aggio.
L’idea di fondo è quella di estrapolare un dettaglio, un singolo elemento (spesso neppure il principale) di un quadro ben noto e di rileggerlo attraverso la lente della macchina fotografica, mettendone in luce – o caricandolo – di una valenza simbolica, ponendolo all’interno di un intero sistema interpretativo, di una diversa “grammatica” visiva.

La mostra è costruita per accostamenti dittici, a cavallo tra parallelismo e contrapposizione, proponendo una lettura laterale, senza retorica, dell’opera d’arte, che parte dall’originale, evidenzia il particolare da interpretare e lo accosta, fisicamente, alla sua rielaborazione fotografica, in una sequenza in cui è forte un elemento di rottura, che spinge l’osservatore a interrogarsi, a reagire, ad abbandonare l’atteggiamento passivo del mero spettatore sotto i cui occhi scorrono i quadri di un’esposizione, o, come scrive il fotografo, “a scandagliare l’opera, senza trascurare gli elementi compositivi e le possibili variazioni che mentalmente possiamo produrre”.

I dettagli assumono dunque la funzione di caratterizzazione del significato, sembrano prendersi la rivincita dopo essere stati trascurati troppo a lungo, catturano lo sguardo e conquistano un ruolo da protagonisti, si svelano nella loro unicità, acquistando nuova definizione.

Anche se, per acquistare questa nuova definizione, per riappropriarsi della scena, devono sacrificare la propria integrità fisica, devono essere distrutti, come se questo fosse il primo passo inevitabile di un processo di rinascita dinnanzi al pubblico. La materia che cambia forma per consentire una nuova percezione.

In un’ottica in cui non vi è pretesa di riprodurre, ma semmai di richiamare, l’oltraggio diventa un espediente per cambiare prospettiva, sempre, comunque, alla ricerca della bellezza…

Piè di pagina
Dove: Brescia, Ma.co.f – Centro della Fotografia Italiana, Via Moretto 78, Brescia
www.macof.it/piccoli-oltraggi-grandi-opere/
Quando: fino al 2 agosto 2020, venerdì, sabato e domenica dalle 15 alle 19
Come: ingresso libero

Mostra – Il potere della natura, Paci contemporary, Brescia

I don’t really have a death wish, it just seems that way. (L. Nix)

Tornare dopo un lungo periodo ad “andar per mostre” rappresenta un nuovo passo verso quella cosiddetta normalità che è stata stravolta dall’emergenza sanitaria.
Questi mesi, al netto di una pletora di slogan vuoti e falsamente consolatori, hanno mostrato quanto il genere umano in senso lato, con la sua arroganza e incapacità di imparare dagli errori, propri e altrui, sia fragile, transitorio, forse destinato a scomparire.
E proprio questa assenza dell’uomo è al centro della ricerca artistica di Lori Nix in mostra negli spazi bresciani di Paci contemporary.
La galleria torna a ospitare una personale dell’artista americana, esponente della staged photography, dopo “Another World” (2012), un altro tassello di quell’altro mondo, o meglio di quel mondo alla fine del mondo (umano) che la Nix racconta per immagini da ormai oltre vent’anni.
Sulle pareti possiamo ripercorrere il percorso della fotografa, dal 1998 con i lavori dedicati a ciò che conosceva meglio, il Kansas rurale in cui in cui era cresciuta, rivisitato come una moderna Dorothy che alle scarpette ha sostituito la macchina fotografica,

Snow storm, 1998, dalla serie Accidentally Kansas, courtesy Paci contemporary

agli insetti della serie Insecta magnifica, che onestamente è quella che mi coinvolge di meno, fino alle suggestioni, ai silenzi quasi parlanti delle serie Some other places (2000-2002) e Lost (2002-2004),

Bounty, 2004, dalla serie Lost, courtesy Paci contemporary

per arrivare alla rappresentazione del “dopo”, di una realtà post apocalittica in cui in un ambiente ormai urbano, il risultato dell’attività dell’uomo si sgretola sotto gli occhi degli spettatori, liberando spazi che, in alcuni casi, vengono progressivamente riconquistati dalla natura con la serie The City, tuttora in corso. In questo ultimo filone della produzione di Lori Nix emergono i temi cardine della sua poetica, dalla scelta di muoversi lungo una linea sottile che separa l’installazione dalla fotografia, a una componente surreale che permette di identificare che quelli ritratti non sono luoghi reali, non sono il risultato di eventi realmente accaduti, sono piuttosto simboli. L’idea non è riprodurre il vero, quanto per dirla con le stesse parole dell’artista “rappresentare figure del (mio) mondo interiore, non del mondo che esiste là fuori”. Verità o finzione o ancora qualcosa di diverso, con la fotografia che fissa un microcosmo che è al contempo reale e fittizio.

Museum of Art, 2005, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary
Control room, 2010, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary

Probabilmente è per questo che osservando Museum of Art, in cui il trionfo della natura è tutto in quelle piante che crescono infiltrandosi tra i muri, negli interstizi, o ancora Control room, in cui domina un senso di decadenza, la sensazione è ben diversa da quella che si prova guardando soggetti analoghi, o molto simili fotografati in tutta la loro terribile realtà da Gerd Ludwig. Non prevale quindi l’angoscia e il senso di desolazione non è opprimente, spesso rotto da singoli dettagli colorati, il vuoto, l’assenza paiono forieri di cambiamento, questa sorta di mancanza può essere letta come fonte di possibilità. Certo è vero, la civilizzazione è in rovina, l’uomo è scomparso, ma non così le sue tracce, non solo sotto forma di meri oggetti di consumo, ma anche dei frutti, ben più duraturi, del suo ingegno, del suo talento.
Resta in ogni caso, credo, una domanda in sottofondo, ossia se questo sia davvero il futuro che ci attende o se messe di fronte a queste visioni post-catastrofiche le persone sapranno scegliere un’altra via. Le singole fotografie diventano così, nell’intenzione dell’artista, “spazi sicuri” per riflettere, in particolare sulle sempre più pressanti sfide ambientali .

Una menzione speciale merita la cura dell’allestimento in galleria in cui non sono solo le opere a essere protagoniste, ma l’intero processo creativo di Lori Nix grazie alla presenza di alcune miniature create appositamente – utilizzando materiali comuni – per comporre i minuziosi e complessi diorami che verranno poi fotografati in pellicola con una macchina di grande formato, senza ulteriori interventi o manipolazioni dell’immagine finale.

Anatomy classroom, 2012, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary

Non posso che chiudere con la fotografia che sceglierei se dovessi “condensare” Lori Nix in una ipotetica raccolta di singole opere al capitolo staged photography e raccomandare la visita di questa mostra – a ritmo lento, magari tornando sui propri passi più volte per cogliere sfumature e dettagli.

Circulation Desk, 2012, dalla serie The City, courtesy Paci contemporary

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Dove: Brescia, Paci contemporary, Via Borgo Pietro Wuhrer 53.
http://www.pacicontemporary.com
Quando: dal 19 maggio 2020 negli orari di apertura della galleria
Come: ingresso libero. Consigliata la prenotazione della visita.
Per approfondire: Lori Nix. Another world, VanillaEdizioni (testi in italiano e inglese) in vendita in galleria, Lori Nix: The City, 2013 in lingua inglese

Mostra – Sandy Skoglund. Winter, Brescia

I always say that my work is actually very realistic to me, realistic, not surrealistic, is not fantasy. This is really the world as it is, as I see it. (Sandy Skoglund)

Dopo l’antologica a Torino le opere di Sandy Skoglund tornano in mostra nella sede bresciana di Paci contemporary (in cui, l’ho già detto in precedenza, gli spazi ex industriali sono stati recuperati in maniera sapiente).
E come per una celebre serie TV, anche per l’artista statunitense l’inverno è arrivato, a chiudere un lungo percorso, questa volta iniziato nel 2008 con un’inedita e onirica rilettura della primavera (Fresh Hybrid).
Si conclude quindi la prima metà di un ciclo, con la possibilità per il pubblico di entrare nella scenografia dell’installazione, di svelarne i minimi dettagli, dai cosiddetti eyeflakes, insoliti fiocchi di neve in ceramica e metallo, ai crumpled foil papers, fogli in alluminio modellati per ricreare un paesaggio invernale.
L’esperienza non è però soltanto un’immersione in questa visione invernale, ma piuttosto un viaggio, sulle pareti della galleria, attraverso l’intera evoluzione artistica della fotografa, dai primi lavori “più tradizionali” degli anni Settanta, al progressivo sviluppo della staged photography e al suo straordinario bestiario, fino a questa ultima immagine, un ibrido di tecniche e concetti che è la somma di tutte le sue forme d’arte.
Con Winter la scultura digitale entra per la prima volta a pieno titolo nel processo creativo dell’artista che aveva già lavorato e sperimentato con altri materiali, dalla resina alla plastica fino alla ceramica. Cambia lo strumento, ma non il concetto che la scultura sia come uno specchio – inconscio ci ricorda la stessa Skoglung – di colui che la crea, frutto del suo relazionarsi con le figure scolpite.

Un applauso a Paci contemporary per aver portato in Italia sia Winter sia Sandy Skoglund che, in un appuntamento a metà tra la conferenza e la lectio magistralis, ci ha raccontato di sé e della propria arte, della sua volontà di superare i confini della fotografia commerciale, portandola proprio nelle gallerie d’arte, di come la sua cifra stilistica sia la serialità, da intendersi come costante dialogo tra somiglianza e differenza.
Con le sue parole la fotografa ha trasportato il pubblico nel suo immaginario, nella sua personale visione del mondo, come palcoscenico, come finzione, offrendo diverse chiavi di lettura, come il gioco dei contrasti (tra l’alto e il basso, inteso spesso nel senso di kitsch o di pop, tra velocità e lentezza, tra uomo e natura e uomo e animale, tra semplice e complesso) che pervade la sua intera produzione e gli stessi metodi di lavoro.

Nell’attesa, personalmente spero non decennale, di un’altra stagione, per scoprire l’universo quasi cinematografico di Sandy Skoglund, sempre sospeso tra verità e finzione, tra razionale e irrazionale, tra “assurdo” e normale” vale davvero la pena di fare tappa a Brescia.

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Dove: Brescia, Paci contemporary, Via Borgo Pietro Wuhrer 53
Quando: dal 10/05/2019 al 30/09/2019 negli orari di apertura della galleria.
Come: ingresso libero
Per approfondire: Constructed Realities: The Art of Staged Photography* in inglese; Sandy Skoglund. Magic time; il recentissimo Sandy Skoglund a cura di Germano Celant, in lingua inglese; Focus: Five Women Photographers: Julia Margaret Cameron/Margaret Bourke-White/Flor Garduno/Sandy Skoglund/Lorna Simpson*

Mostra – Sandy Skoglund. Visioni ibride, Camera, Torino

My work involves the physical manifestation of emotional reality. Thus, the invisible becomes visible; the normal, abnormal; and the familiar, unfamiliar. Ordinary life is an endless source of fascination to me in its ritualistic objects and behavior.

(Sandy Skoglund)

Le opere di Sandy Skoglund le ho riscoperte solo di recente, all’inaugurazione nuova sede bresciana di Paci contemporary (ne ho raccontato qui http://indirezionenoncasuale.it/2018/12/19/mostra-horst-p-horst-a-legend-of-style-paci-contemporary-brescia/) e ho subito approfittato dell’occasione di vedere la prima antologica dell’artista a Torino che offre la possibilità di ripercorrere le tappe salienti del percorso della fotografa americana.
Dalle immagini degli anni Settanta, in cui emergono la ripetitività e la serialità come elementi dominanti, alle ambientazioni e ai tableaux vivants che l’hanno resa celebre, al trionfo del colore e alle costruzioni plastiche ricontestualizzate, al tema del cibo fino ai paesaggi incantati e artificiali di cui Winter (2018) costituisce l’ultima espressione.

La cura quasi maniacale con cui la Skoglund ricostruisce gli ambienti, i singoli dettagli delle sue opere, insomma con cui costruisce i propri mondi, si coglie perfettamente nell’allestimento torinese, così come emerge prepotente il tema del rapporto tra la natura e l’uomo, la riflessione sulla condizione del pianeta che abitiamo e, di riflesso, sul nostro ruolo, come umani, nel mondo.
Concretezza e materia si fondono con metafora e fantasia, grazie al talento e alla visione di colei che si definisce una image maker, una creatrice d’immagini, e che si è imposta come una delle espressioni più vivide e compiute della staged photography.
Nell’ottimo allestimento a cura di Germano Celant si susseguono fotografie, di grande e piccolo formato, e installazioni, ma sono anche presenti gli oggetti e le sculture (realistiche), le forme in resina e altri materiali con cui l’artista ha creato le sue immagini e proprio questa scelta rende la visita particolarmente interessante per il pubblico, giacché consente di gettare uno sguardo diverso sul gioco di trasformazioni che si sviluppa sotto i suoi occhi, di entrare nel meccanismo con cui la Skoglund muta l’ordinario in fantastico, surreale, con cui pone “l’uomo a confronto con il suo universo quotidiano e lo rovescia nell’angoscia del suo immaginario” come lei stessa ebbe a sottolineare per spiegare il suo personale approccio artistico già all’inizio degli anni ’80.

All’interno delle diverse sale ci si immerge in un universo a cavallo tra naturale e artificiale, vero e falso, esotico e comune, si è quasi travolti dal colore – rossi e verdi, gialli e viola, fino alle meravigliose sfumature di blu di Winter – con le tinte che concorrono a creare scene sospese, congelate nel tempo e nello spazio, a tratti incantate, altre volte enigmatiche, angoscianti.
La sensazione generale è simile a quella che deve aver provato Alice appena catapultata nel paese delle meraviglie e si esce con riluttanza per tornare alla vita reale. “Arrivederci a presto” Sandy.

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Dove: Torino, Camera, Centro Italiano per la Fotografia, Via delle Rosine 18
Quando: dal 24/01/2019 al 31/03/2019. Tutti i giorni 11.00 – 19.00; chiuso il martedì.
Come: biglietto intero 10 euro.
http://camera.to/mostre/sandy-skoglund-visioni-ibride/
Per approfondire: Constructed Realities: The Art of Staged Photography* in inglese; Sandy Skoglund. Magic time*; Sandy Skoglund* testo del curatore della mostra, Germano Celant, in lingua inglese (in corso di pubblicazione); Focus: Five Women Photographers: Julia Margaret Cameron/Margaret Bourke-White/Flor Garduno/Sandy Skoglund/Lorna Simpson*

Mostra – Steve McCurry, Animals, Mudec, Milano

Tra le mostre di McCurry che ho visto negli ultimi anni questa è onestamente quella che mi ha entusiasmato meno.
Ecco, mi sono tolta subito il peso.
Non è che le fotografie non siano, come sempre, spettacolari, né che il tema sia poco interessante, anzi.
La scelta di mettere gli animali al centro della scena, raccontandone anche il legame con l’uomo, e di puntare l’obiettivo sulla necessità di salvaguardare la natura, mi attirano moltissimo.
Ciò che mi ha lasciato perplessa è l’allestimento, in un nuovo spazio che appare forse incompleto o comunque non completamente adeguato ad accogliere il flusso dei visitatori e che rende l’esperienza meno godibile, quasi compressa, dando l’impressione che gli scatti sulle pareti siano ben meno di quei sessanta promessi.
Credo che una maggiore distanza tra le opere avrebbe consentito di ammirarle meglio e di diluire almeno un po’ il chiacchiericcio di fondo. (E se qualcuno se lo stesse chiedendo sono perfettamente consapevole di non poter pretendere l’assoluto silenzio e proprio per cercare di evitare “la folla” ho scelto di entrare la domenica mattina all’apertura).
Va invece applaudito chi ha studiato l’illuminazione, davvero ben posizionata per non creare sgradevoli ombre o effetti sulla carta lucida.
Tornando alle opere ho ritrovato con grandissimo piacere alcune immagini che per me rappresentano autentici ricordi di viaggio, dagli elefanti del Sudest asiatico agli animali in India, scene di quotidianità che ho vissuto in prima persona.
Come ben scrive Chiara Cola su Artslife “Ogni foto è frutto di uno scatto della durata di mezzo secondo, ma ugualmente è capace di raccontare storie che vanno ben al di là di questo breve lasso di tempo. Chi le osserva crea la propria versione dei fatti, che spesso è molto diversa dalla realtà”.
Finalmente ho anche potuto vedere una serie più corposa delle fotografie scattate da McCurry per documentare gli effetti della guerra nel Golfo che ritengo siano davvero, purtroppo, delle icone del nostro tempo. Gli uccelli cosparsi dal petrolio, ancora più dei cammelli che si muovono tra i pozzi in fiamme, dovrebbero spingere a riflettere su come, dal 1991, poco sia davvero cambiato in meglio e su come l’uomo continui incessantemente a distruggere l’ambiente che lo circonda. Una catastrofe che, immortalata sulla pellicola, diventa innegabile, ancora più spaventosa.

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Dove: Milano, Mudec Meseo delle Culture, – Via Tortona 56
Quando: dal 16/12/2018 al 14/04/2019. Lunedì 14.30 – 19.30; martedì – mercoledì – venerdì – domenica 09.30 – 19.30; giovedì – sabato – 09.30 – 22.30. Ultimo ingresso un’ora prima.
Come: biglietto intero 10 euro.
http://www.mudec.it/ita/steve-mccurry/
Per approfondire: catalogo in vendita in mostra; Steve McCurry. Una vita per immagini*; Le storie dietro le fotografie*; Il mondo di Steve McCurry*