Christian Floquet e il suo “coup d’œil”

Conosco Christian Floquet in tante diverse vesti. La prima è sicuramente come traduttore da molti anni, la seconda, ormai da qualche anno, come collega all’università, la terza, senz’altro più recente, come fotografo. In occasione della sua personale allo Spazio RT gli ho chiesto di sedersi con me e di rispondere a qualche curiosità sulla sua passione, su come nascono i suoi scatti, sulle “assenze” che popolano questa mostra.

D. Nella tua conversazione con Elisabetta Longari, curatrice della tua mostra Coup d’œil che apre i battenti a Milano, racconti delle prime foto che hai scattato a Parigi, ancora bambino, poi di quelle in Africa e ancora in giro per il mondo. All’inizio, mi sembra di capire, ti concentravi soprattutto sui paesaggi, le tue, insomma, erano delle “foto di viaggio”. Quando, se c’è stato un momento preciso, e perché hai deciso di fissare il tuo sguardo e l’obiettivo sui particolari architettonici, urbanistici forse più che urbani, togliendo quasi ogni sfondo, privando, in un certo senso gli edifici e le strutture del loro contesto più ampio, di una loro specifica collocazione che permettesse al pubblico, se vogliamo, di riconoscerne l’indirizzo.

A Parigi nella seconda metà degli anni Ottanta. La città era tutto un cantiere di grandi opere durante la presidenza di François Mitterrand; tanto per citarne tre: la Grande Arche de la Défense, il Musée d’Orsay e la Pyramide du Louvre. Sempre a metà degli anni Ottanta sono tornato a Buenos Aires e ho visto una città in piena evoluzione dal punto di vista architettonico e anche lì devo dire che mi sono molto divertito a fotografare le architetture.
In quanto al perché della scelta dei particolari forse la voglia di approfondire, la ricerca del dettaglio che sfugge all’osservatore distratto. O anche perché la foto del monumento celebre la fanno tutti e la trovo in cartolina, probabilmente più bella di quella che farei io, ma la foto del dettaglio di quel monumento saremo in pochi a farla, penso.

D: Vista la tua passione per l’andare a zonzo (traduzione, che non mi ha mai completamente convinto, dell’atteggiamento del flâneur baudleriano) con la macchina fotografica a portata di mano, mi chiedo quanta preparazione, quante ore di studio a tavolino si nascondano dietro gli scatti. Oppure se si tratti davvero, come lascerebbe intendere il titolo della mostra, di immagini che riflettono un colpo d’occhio in un certo senso imprevisto, casuale, che fissano un istante senza, diciamo, alcun tipo di premeditazione.

Se premeditazione c’è, a volte, è soltanto sul luogo dove andare a fare le fotografie. Poi una volta lì cerco, guardo, osservo e poi se c’è il coup d’œil allora scatta anche il pulsante della macchina fotografica.

D. In ogni fotografia c’è poco o tanto di chi l’ha scattata. Cosa dice di te la scelta, immagino molto ponderata, comunque insistita, di eliminare la presenza fisica dell’essere umano (tutt’al più ripreso a sua volta mentre scatta) quando i soggetti sono proprio opere che rappresentano il frutto di questa presenza umana sulla terra?

Credo che dica che sono timido (sto migliorando però) e discreto, quindi non mi va di impormi agli altri con la presenza, spesso ingombrante, della mia macchina fotografica. Se guardiamo le poche foto nelle quali ci sono delle persone, queste sono ritratte di profilo mentre sono intente a fare altro, o di spalle, mentre si allontanano. Però ogni tanto qualche ritratto lo faccio e mi dicono che sono belli.

D. Continuando a parlare di assenza, mi incuriosisce il fatto che le fotografie non abbiano un titolo che le renda maggiormente distinguibili.

È una scelta fatta con Elisabetta Longari, ma mi sono ispirato anche a tanti grandi fotografi che spesso non danno un titolo alle fotografie, ma citano solo il luogo e l’anno.
Nel 2019, in un incontro intitolato “Fotografia e traduzione”, a cura di Franca Cavagnoli, anche Ferdinando Scianna aveva detto che dare un titolo a una fotografia è inutile. Qualche volta do un sottotitolo. Penso che continuerò a non dar loro dei titoli.

D. Come ultima domanda pensavo di chiederti quale scatto, se dovessi ripeterlo, realizzeresti in modo diverso e quale invece preferisci, ovviamente dopo averti rivelato il mio. Il problema è che non riesco a scegliere tre lo scampolo di cielo che si intravede nella foto del 2016 a Londra e la serie di colonne rosse a Milano che mi hanno ricordato l’infinita processione, in chiave meneghina, di tori del Fushimi Inari, tanto per tornare sul tema del viaggio. Ad ogni modo quali fotografie vuoi raccontarci?

Non mi piace ripetere uno scatto, anche perché non potrà mai essere uguale all’altro (la luce, le condizioni climatiche, il mio stato d’animo, non saranno mai gli stessi).
A proposito di non dare un titolo, di Londra 2016 ce ne sono tre! Ma ho capito a quale ti riferisci.

Non ho una foto preferita, sarebbe come chiedere a un padre qual è il figlio prediletto, tuttavia se dovessi indicarne un paio di quelle sul catalogo direi la famiglia nel tempio di Ryoan-ji a Kyoto perché è rara (appunto per la presenza umana); poi quella di Quino, il mio Labrador, in mezzo ai CD sparsi sul pavimento, perché nonostante sembri stata composta, è in realtà un’istantanea, appunto un coup d’œil; last but not least quella dell’immobile taggato a Milano perché più la guardo, più scopro dettagli, e anche per il gioco di luci e ombre, che fanno da contraltare ai tag.
Come vedi ho scelto tre foto in bianco e nero, e tutte e tre “contestualizzate”. Niente dettagli di architettura, niente colori.

Per scoprire tutti i 35 scatti, compreso quello di Quino, che ho appositamente scelto di non pubblicare, perché va visto di persona, avvicinandosi per guardarne il protagonista negli occhi, non mi resta che ricordare che la mostra resterà aperta fino al prossimo 6 novembre.

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Dove: Milano, Spazio RT, Via Fatebenefratelli 34
Quando: fino al 6 novembre, da martedì a sabato dalle 9:30 alle 13:30 e dalle 15:00 alle 19:00, il lunedì dalle 15:00 alle 19:00
Come: ingresso gratuito

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