Festival della Fotografia Etica 2018 (parte prima)

Una domenica d’ottobre soleggiata trascorsa a Lodi per visitare il Festival della Fotografia Etica, prendendosi il tempo per passeggiare nel bel centro cittadino e soprattutto per scoprire le diverse mostre che compongono il festival.
“Quando la fotografia parla alle coscienze”, questo è il sottotitolo della manifestazione, giunta ormai alla sua nona edizione e, spero davvero, destinata a una vita ancora molto molto lunga.
In questo grande contenitore di immagini, legate da alcuni fili conduttori, mi sono volutamente persa, lasciandomi avvolgere e coinvolgere dalle fotografie esposte, uscendo dalla mia comfort zone perché non c’è miglior mezzo che vedere per comprendere, per gettare qualche spiraglio di luce su mondi spesso lontani, a tratti spaventosi proprio perché sconosciuti.

 

Colombia, Puerto Giraldo, two hours from Barranquilla, 30/04/2014.
Within an intensive breeding for caimans.
An operator performs the cuts on the skin of a caiman just shot down.
This delicate process takes place in several steps. The alligators are killed by a cut on her neck made by hand with a knife, the killing is done by a specific operator, responsible only to this task.

Come primo assaggio le tre mostre ospitate nello Spazio tematico nell’ex chiesa di San Cristoforo, lasciano subito intendere il tono della giornata. Con “Il prezzo della vanità” Paolo Marchetti  colpisce il pubblico allo stomaco, con fotografie forti, disturbanti, difficili da guardare per quel loro ritrarre l’inutile violenza dell’uomo sugli animali che sembra ancora più inumana inserita in uno spazio una volta dedicato alla preghiera. A livello puramente visivo trovo interessante la contrapposizione tra le foto di allevamenti e mattatoi e quelle delle sfilate di moda, oltre che l’uso del buio, dello scuro come protagonista assoluto, quasi come se all’assenza di luce corrispondesse un’assenza di qualsiasi umanità, di speranza.
Speranza che, con un sospiro di sollievo, ritorna prepotente nella rassegna di Ami Vitale che in “Storie che fanno la differenza” racconta di chi ha scelto di difendere gli animali, con diverse modalità, in Cina, Stati Uniti e Kenya.

 

Seguendo il filo del rapporto uomo-animale, si arriva al reportage di Wu Jingli “Gli uomini dei cani”  dove gli uomini raffigurati non hanno proprio nulla di umano. Onestamente per me è stato difficile guardare queste fotografie, rese ancora più cupe dal bianco e nero, ossessiva dicotomia tra bene e male, lealtà e tradimento.

 

ARIQUEMES, BRAZIL – OCTOBER 19, 2017: A girl is seen in the Terra Nossa II, a poor camp of landless peasants who are occupying a public land in the state of Rondonia. Occupations produce conflicts with local ranch owners, who hire private armed guards to intimidate the landless farmers and destroy their crops. The Brazilian Rondonia state, part of the Amazon region, consistently tops the list of land conflict killings, with 15 already in 2017, according to watchdog group Comissão Pastoral da Terra. Across Brazil, the number of land killings stands at 63 from January until September this year, compared to 61 in 2016, with 49 occurring in Amazon states.

Sempre a Palazzo Barni si trova una sezione dello spazio World. Report Award di cui ho particolarmente apprezzato la serie “Terra Rossa” di Tommaso Protti, vincitrice della sezione Spot Light Award.
Il fotografo, con i suoi scatti riesce a ottenere lo scopo che si era prefissato: “L’anima di un intero mondo diventa fotografia”. Nel suo racconto per immagini, dedicato alla regione brasiliana dell’Amazzonia, trionfa ancora una volta la violenza, spesso senza senso, l’imbarbarimento di uomini che sono più ostili alla sopravvivenza del resto del genere umano della natura stessa.

 

PALONG KHALI, BANGLADESH – OCTOBER 9: Thousands of Rohingya refugees fleeing from Myanmar walk along a muddy rice field after crossing the border in Palong Khali, Cox’s Bazar, Bangladesh.
For years Buddhist majority Myanmar has struggled to deal with a deeply rooted hatred towards the Rohingya in western Rakhine state. The Muslim ethnic minority were always considered illegal immigrants from Bangladesh and denied the rights of citizenship. According to Human Rights Watch, the 1982 laws “effectively deny to the Rohingya the possibility of acquiring a nationality ”. Myanmar’s government also enforced severe restrictions on freedom of movement, state education and civil service jobs and health care. The refugee emergency unfolded in late August after an attack on state security forces by Rohingya insurgents, triggering a brutal military crackdown that has forced more than half of the country’s 1.1 million population fleeing to neighboring Bangladesh creating the fastest cross-border exodus ever witnessed with over 655,000 new arrivals. Many traumatized refugees arrived telling stories of horror alleging rape, killings and the burning of hundreds of villages, which have been well documented by the media, along with the U.N and various human rights groups.

Dolore, smisurato, apparentemente senza fine, di un intero popolo. Questo è ciò che traspare dal reportage di Paula Bronstein “Apolidi, abbandonati e indesiderati: la crisi dei Rohingya”, vincitore della sezione Master Award, che racconta di un esodo terribile, di quello che diverse organizzazioni per i diritti umani non esitano a definire un esempio di pulizia etnica che sta cambiando la geografia e la demografia di un’intera area del mondo. La storia ribadisce, come ci ha già insegnato a più riprese, la facilità con cui chi è stato oppresso può diventare oppressore.
A livello visivo ciò che accomuna i due reportage premiati è, a mio avviso, un sapiente uso della luce e delle ombre che diventano protagoniste della narrazione, aggiungendo nuovi livelli di lettura.

Dove: Lodi
Quando: ogni sabato e domenica dal 6 al 28 ottobre, dalle 9.30 alle 20
Come: biglietto intero 15 euro (valido per tutte le giornate di apertura) acquistabile solo presso la biglietteria in Piazza del Broletto
https://www.festivaldellafotografiaetica.it/
Catalogo disponibile dal 31 dicembre 2018 *

Ladakh – Horn Please!

In India, il sistema stradale appare caotico agli occhi dei viaggiatori, la sensazione è di non poter sopravvivere al traffico, alla miriade di mezzi di trasporto di qualsiasi tipo che si riversano sulle strade, tanto nelle metropoli che nelle piccole città.
Ma ciò che resta più impresso, spostandosi da un luogo all’altro, è probabilmente il rumore, il suono incessante dei clacson che non si interrompe mai.
Si suona per segnalare la propria presenza, per spingere mucche ed altri animali a spostarsi dalla carreggiata, per mettere fretta ai pedoni agli incroci, per sorpassare, ma anche per far passare, insomma si suona sempre, continuamente, ma con convinzione se non con entusiasmo, tanto da far pensare che le scuole guida prevedano corsi appositi.
E poi ti ritrovi improvvisamente in un’India diversa, in montagna, con la macchina che arranca sulla carrozzabile più alta del mondo e sei circondato dal silenzio, quando invece ti aspetteresti di sentirlo il suono del clacson, al di là di una curva cieca, di un crinale, di uno spuntone di roccia che ostruisce la visuale. E così l’incontro con i bestioni della strada è spesso inatteso e, qualche volta, sin troppo ravvicinato, quando si è stretti tra il fianco del monte e il burrone. Ma l’espressione del nostro autista non tradisce mai alcun segno di nervosismo e nella ricerca della foto perfetta, tra i tornanti che si aprono per lasciare intravedere paesaggi incantati, anche i camion diventano protagonisti di una giocosa caccia per vedere chi riesce a cogliere il cartello più improbabile, la prospettiva più suggestiva, l’autocarro più colorato.

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I kill giants

Il problema dei fumetti per quel che mi riguarda è spesso che trovo la storia molto bella e non mi piace il disegno o viceversa lo stile di disegno che mi piace non è supportato da una storia altrettanto interessante.
I kill giants risulta vincente da entrambi i punti di vista perché il tratto grafico rispecchia la complessità della storia, quei molteplici livelli di lettura che rendono difficile raccontarla senza scoprire troppo le carte (e rovinare l’effetto per chi ancora deve leggerla).
Parlando del disegno trovo che la scelta del bianco e nero da parte di JM Ken Niimura sia perfetta per accentuare l’atmosfera della narrazione, con le tavole su sfondo nero che quasi escono dalla pagina per colpire fisicamente il lettore. Già, perché proprio il disagio, il dolore sono tra gli elementi costanti, seppure mai urlati, della trama.
Anche la copertina scelta da Bao Publishing per l’edizione italiana, che introduce una punta di rosso vivo, cattura l’attenzione, anticipando uno dei temi dell’opera senza però svelarlo completamente.
Le vicende di Barbara Thorson, la stramba bambina dalla fervida immaginazione (sempre apparentemente fuori posto rispetto alla realtà che la circonda) che Joe Kelly ha scelto come protagonista, in realtà sono solo il primo strato di quello che in realtà è un racconto che potremmo definire di formazione in cui si narra di un autentico rito di passaggio, della difficoltà di crescere e di scegliere di affrontare le proprie paure in un mondo spesso sull’orlo della disperazione, del sapere accettare invece che negare ogni aspetto della vita.
Un fumetto, fino allo scontro finale e oltre, che è soprattutto il viaggio interiore di Barbara e poi di ciascuno dei lettori che lo vivono in modo diverso, personale, accomunati forse da un’unica certezza, ossia che “i propri giganti vadano tenuti al guinzaglio”.

Chissà se l’adattamento cinematografico sarà all’altezza?

SBN: 978-88-6543-007-1
Autori: J. M. Ken Niimura, Joe Kelly
Colore o B/N: Bianco e nero
Copertina flessibile: 200 pagine
Editore: Bao Publishing (27 ottobre 2010)
Traduzione: Caterina Marietti
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Cieli


Agosto 2018.
Cieli così azzurri e mutevoli, con le nuvole in corsa, che vigilano su distese di nulla li ho incontrati solo in Mongolia. Non un déjà-vu, perché in Ladakh niente è piatto per chilometri, ma il ripresentarsi di sensazioni indimenticate e indimenticabili, richiamate anche dalla quasi totale assenza di umidità che falsa le prospettive, rendendo tutto più vicino e lontano allo stesso tempo.

Allungare una mano e poter toccare un ghiacciaio, in realtà molto distante, oppure vedere un lago salato all’orizzonte, immaginarlo quasi irraggiungibile e camminare sulle sue rive dopo pochi minuti. Quando gli occhi ingannano l’unica misura dello spazio diventano i passi.