Riflessioni – Il turismo responsabile: RAM Viaggi (parte II)

Per marcare un momento molto particolare, non un “libera tutti” ma un primo tentativo di ritornare a una vita sociale, di relazione, che per il collettivo indirezionenoncausale vuol dire anche, soprattutto, ricominciare a progettare viaggi futuri, riprendiamo il filo del discorso legato al turismo responsabile, con la seconda parte dell’intervista a Renzo Garrone di RAM Viaggi, in cui si parlava di progetti per il 2020, prima che la pandemia cambiasse il nostro orizzonte quotidiano e, probabilmente, di medio periodo.

Dopo aver scoperto chi è RAM Viaggi ci immergiamo nel cuore di questa riflessione sul turismo responsabile.

D. Il dibattito sul fenomeno del turismo globale, con i turisti accusati di essere più colonizzatori che viaggiatori, sulla prevalenza della condivisione delle immagini sui social rispetto al piacere della scoperta e della conoscenza, si ripropone (banalmente) ogni estate. Ma si tratta per lo più di articoli dai titoli urlati, zeppi di luoghi comuni. Manca una reale volontà di confrontarsi seriamente sul tema dell’iperturismo a livello mondiale, mentre tra il pubblico pare essersi persa l’idea, per dirla con Claudio Magris, che “viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra”(1).
Dal tuo punto di vista privilegiato di viaggiatore consapevole ritieni che l’overtourism sia un problema reale, soprattutto nei paesi del cosiddetto sud del mondo, e pensi che in qualche misura il turismo responsabile possa essere contemporaneamente utile a lottare contro questa minaccia e cancellare vecchi (e nuovi) stereotipi?

R. Mi piace intanto l’espressione iperturismo, secondo me assai più azzeccata che overtourism. Quel che dite è tutto vero. Ed il fenomeno rappresenta un problema anche nel sud del mondo. Alcuni luoghi sono stati talmente inflazionati in questi ultimi anni, tanto che registrano gli stessi identici problemi: sovraffollamento, traffico, aumento prezzi del posto, espulsione dei residenti, banalizzazione culturale, e la triste, spintissima, mercificazione dell’offerta. Ovviamente se più persone, più operatori, più gruppi bene assortiti, più viaggiatori indipendenti, praticassero davvero del buon turismo responsabile, questo sarebbe uno strumento efficace per il cambiamento. Il punto è però che si parla di turismo responsabile, a volte fino alla nausea, ma non lo si pratica realmente – e in questa critica metto un po’ tutti, qualche volta anche noi stessi, anche me stesso. C’è modo e modo di fare le cose, perché le differenze esistono e se messe in atto generano ulteriori differenze, nel bene e nel male.
Da una parte si è verificata – senza quasi ce ne accorgessimo – una sorta di mutazione antropologica (il copyright di questa definizione non è mio, ma di Paolo Grigolli, direttore TSM, Trento), e il turismo in eccesso (agito da persone non consapevoli del fenomeno di cui sono parte, e che contribuiscono a creare) ne è lo specchio. Oggi pare che tutti possano fare tutto, viaggiare di punto in bianco a 10.000 km di distanza senza alcuna preparazione pregressa. Non ci sono limiti se non le paure, largamente indotte dalla propaganda, per le quali ad esempio l’Iran significa oscurantismo e magari belle moschee, ma nient’altro; la paura della guerra, e allora non ci si va. Ma poi c’è la banalità della mercificazione totale in agguato, c’è l’universo articolato dei luoghi comuni, per i quali Bali è giusto spiagge e divertimentifici, e da lì non si esce. Rari coloro che approfondiscono per conseguire un’immagine più articolata dei luoghi (questo introdurrebbe il tema del tornare nei luoghi, ma sarebbe un altro capitolo, che per me è azione comunque necessaria per capire meglio). Ci si domanda, a vote increduli: ma è possibile che poi in viaggio ai più basti la conferma di questi stereotipi? Eppure per la maggior parte dei turisti, oggi, schiavi di un tempo libero assai limitato, sembra vada bene così.
Per me quale essere umano è quasi umiliante – cerco di fregarmene ma mi fa spesso anche rabbia – notare il trionfo “della prevalenza della condivisione delle immagini sui social rispetto al piacere della scoperta e della conoscenza”. Quello che trionfa è la superficialità, che sarebbe un ingrediente da bandire, tipo lo zucchero bianco. Ma che spunta inevitabile se, nel viaggio, non c’è tempo abbastanza e se non c’è la motivazione né l’abitudine ad approfondire. Questi due, se praticati sul serio, sono due degli ingredienti-chiave del Turismo Responsabile. I più eretici, quelli intorno a cui è nata però – a partire dagli anni ’90 – la nostra (fragilissima, misconosciuta, ma viva) “scuola italiana”.
Moltissimi utenti non hanno questa spinta, quindi c’è un problema di psicologia, a monte. A valle invece è una questione di tecnica turistica, se posso permettermi, che è però anche scelta politica, che deriva dalle pastoie commerciali dell’offerta locale e degli operatori professionali. Per esempio in un bel luogo archeologico, mettiamo il comprensorio di Angkor in Cambogia, o Pagan in Birmania, si può sempre aggiungere una giornata per vedere anche luoghi meno celebri nella stessa zona, sennò davvero, come dicevi tu all’inizio, si è venuti solo per piantare delle bandierine? (che per il turista significa, smarco, fatto anche questo). È necessario che la gente acquisisca maggiore consapevolezza: anche in una Venezia o in una Firenze, se ti allontani di 500 metri dai luoghi dell’iperturismo, la maggior parte dei posti tornano ad essere vivibili più normalmente. Che significa visitabili semplicemente. Ecco, per fare del buon turismo, e incidentalmente anche per decongestionare, si può partire dalla propria iniziativa, voglia, curiosità – staccandosi dal gregge. Spesso la qualità dipende da cosa fai e dal come lo fai, non dal dove vai in senso stretto. In una certa località puoi vedere un grande tempio famoso, pieno di gente, e magari affollato spesso di troppi turisti – perché oggi va così – ma successivamente puoi allontanarti, incontrare qualcuno del posto, certo può funzionare bene se si tratta di qualcosa di organizzato prima. Puoi anche chiedere alla tua guida, per esempio, di uscire dagli schemi. Gli interlocutori potrebbero poi essere amici ma anche, per esempio, di organismo di sviluppo sociale. Si può andare a casa delle persone, dove si capisca meglio come si vive, si può mangiare con loro, la condivisione è un ottimo sistema per colmare il gap tra culture…
Può cambiare insomma la prospettiva, lo stesso luogo può essere declinato in molti modi. Alcune di queste modalità meno convenzionali di viaggio restituiscono profondità, e quel che accade te lo ricorderai per sempre. Di altre visite, specie quelle prive di incontri significativi, probabilmente resterà molto meno. Un’immagine più superficiale.
Questo non significa che l’incontro vada considerato come obbligatorio per legge, non siamo talebani. Certa arte e certa natura possono essere fruite, e magari anche meglio, senza l’interferenza di altri esseri umani. Ma in generale, credo che l’incontro sia un ingrediente-chiave del turismo responsabile.

D. Torniamo a parlare specificamente di viaggi. Per noi, che ben conosciamo il catalogo delle proposte di RAM Viaggi sarebbe difficilissimo rispondere a questa domanda, ma magari per te è più semplice… qual è il viaggio che più vi rappresenta e perché? E quello a cui sei più legato sentimentalmente e quello che invece non riesci (quasi) mai a far partire?
R. Difficilissimo anche per me. Questi viaggi sono almeno dieci! Dico India del sud, per il livello di contatto umano che si rende possibile attraverso una permanenza di diversi giorni consecutivi in homestay, con alloggio e ristorazione in famiglia. Ma dico anche Nepal, Valle di Kathmandu, per la incredibile quantità di relazioni amicali che RAM ha sviluppato sul territorio, tra l’altro in un un’area circoscritta, che consentono davvero di fare un viaggio diverso da qualsiasi altro. E dico necessariamente Iran, un paese dove il nostro turismo ha un significato profondo, dove la gente ti cerca per dimostrare che esiste, che non sono terroristi. Un paese poi, al di là di questo, davvero bellissimo. Ma dovrei dire anche Indonesia, perché si tratta un luogo dove la dolcezza delle persone mi ha sempre incantato. E con queste quattro citazioni faccio un torto alla bontà di altre destinazioni.

D. Progetti futuri. Il viaggio che ancora non sei riuscito a organizzare, ma che speri di riuscire a proporre prossimamente (se vuoi abbiamo qualche suggerimento) e la meta che da viaggiatore vorresti tanto riuscire ad esplorare.
R. Prossimamente RAM apre il Giappone, a primavera 2020. Vado in Giappone a costruire il viaggio tra novembre e dicembre del 2019, in pratica sto partendo! Vorrei aggiungere poi tanti altri viaggi con molto tempo in natura, con trekking che siano belli ma anche facili, non estremi (anche perché non me lo posso più permettere, non solo perché non lo vogliono i nostri clienti).
Mi piacerebbe ripartire e ampliare la nostra offerta in Turchia, attualmente sospesa del tutto, ma con questo regime davvero non ce la sentiamo. Ma passerà anche Erdogan…
Mi piacerebbe inoltre aggiungere parecchio Medio Oriente, ma c’è sempre qualche guerra e si tratta quindi, per noi piccolissimi, di investimenti rischiosi.
Aggiungeremo di sicuro nuove mete in Indonesia. Le isole sono 17.000…
E aggiungeremo viaggi con gli esperti, che alzino il livello culturale del singolo viaggio: costeranno di più ma ne varrà la pena.

Per ora ci fermiamo qui, ma torneremo presto a parlare di turismo responsabile, di nuovi paradigmi per viaggiare e di iperturismo. Nel frattempo non smetteremo di esplorare.

(1) Claudio Magris, L’infinito viaggiare

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Fotografie di Renzo Garrone
Per approfondire: per Kindle in lingua inglese Overtourism: Tourism Management and Solutions*; per Kindle in lingua inglese Overtourism: Excesses, Discontents and Measures in Travel and Tourism*; https://officinadeisaperi.it/tag/iperturismo e tutti i libri di Renzo Garrone acquistabili su https://renzogarrone.com/index.php/libri

Riflessioni – Il turismo responsabile: RAM Viaggi (parte I)

Porta itineris dicitur longissima esse

Dieci anni fa abbiamo scelto consapevolmente un modo diverso di scoprire il mondo, di viaggiare, che ci permettesse di vivere i luoghi, le diverse realtà in maniera meno frettolosa, meno superficiale, senza sentirci come se stessimo soltanto piantando una bandierina sul planisfero.
Dieci anni fa abbiamo deciso di superare un po’ di timore e molti preconcetti e di provare un’esperienza di quel turismo responsabile di cui tanto avevamo letto.
Oggi non credo che potremmo “tornare indietro” al tradizionale concetto di viaggio organizzato, ancorché di scoperta, rinunciando a quegli elementi che sono diventati una componente intrinseca del nostro modo di trascorrere le vacanze, ad approfondire il rapporto con i territori e le persone che li abitano, senza dimenticare che ogni nostro singolo gesto, come turisti, oltre che come ospiti della Terra, si inserisce sempre in un quadro molto più ampio, senza mai poter essere completamente neutro, privo di conseguenze.
Ma cosa è il turismo responsabile, quali sono le sue caratteristiche imprescindibili? Il collettivo indirezionenoncasuale ha chiesto una definizione a Renzo Garrone, direttore di RAM Viaggi, uno dei primi operatori in Italia a scegliere i viaggi responsabili come propria cifra sia stilistica che di contenuto, fondatore di AITR, Associazione Italiana Turismo Responsabile, e autore di reportage di viaggi vicini e lontani, ma soprattutto su ambienti, culture e persone diverse.

D. Renzo, innanzitutto ci riassumi la storia di RAM Viaggi che è legata a doppio filo proprio all’idea di turismo responsabile prima di proporci la tua definizione?
R. Innanzitutto RAM Viaggi fa parte di RAM, un gruppo di persone che si occupa da oltre 30 anni di commercio equo, di turismo responsabile, di cultura (editoria, eventi pubblici) e formazione. Siamo focalizzati, e nei decenni ci siamo specializzati, su tematiche asiatiche.
L’attività dei viaggi è cominciata nel 1991, sotto l’ombrello di Associazione RAM, a beneficio dei soci.
Successivamente, per un inquadramento adeguato sia sul piano giuridico che fiscale, fu necessario scorporare i viaggi dal resto dell’attività. Siamo diventati un Tour Operator dal luglio 2005. RAM Viaggi è una SRL, mentre l’importazione + rivendita di prodotti provenienti da piccole aziende asiatiche, oltre all’editoria specifica e ai frequenti eventi culturali, resta sotto l’ombrello di Associazione RAM. Il gruppo d’altra parte esiste fin dal 1988 e fu la primissima realtà in Italia ad organizzare viaggi di questo genere. Nel 1991, né il fenomeno né il movimento del “turismo responsabile” esistevano ancora, noi però parlavamo già di turismo d’incontro. Proponemmo Nepal e India centrale, quell’estate.
Da allora siamo cresciuti, abbiamo fatto i nostri investimenti, camminato insieme a molti altri compagni di strada. Siamo tra i fondatori di AITR, l’Associazione Italiana Turismo Responsabile, di cui fummo tra i principali ispiratori attraverso gli anni Novanta.
Sul piano dell’organizzazione dei viaggi, c’è stata una messa a fuoco dell’operatività, uno specializzarsi graduale. La nostra scelta, fin dall’inizio, è stata limitarsi alle destinazioni asiatiche: la regione indiana, quella tibetana ed il sudestasiatico rappresentano il cuore dell’attività; successivamente abbiamo introdotto il Medio Oriente. Avevamo anche viaggi in Siria prima della guerra, e in Turchia prima di Erdogan. Operiamo in Iran dal 2014 e in Oman dal 2017. Stiamo introducendo il Giappone. Poi c’è Cuba, dove mandiamo turisti da sempre (la cosa è legata a un antico socio RAM della prima ora, titolare della destinazione). Mentre in Africa ci limitiamo all’eccezione Capo Verde, dall’estate 2012. In Italia ci concentriamo su soggiorni ed escursioni “d’autore” soprattutto in Liguria, il nostro territorio. Il motivo è specifico: siamo una piccola realtà che cerca di offrire ai clienti prestazioni di alta qualità, quantomeno sul piano della conoscenza dei luoghi che si visitano, sia sotto il profilo logistico che sul piano culturale. In più, rispetto a tutti gli altri operatori, anche sotto il profilo del contatto umano nelle varie destinazioni (ma anche dentro i gruppi che si creano). In sostanza, cerchiamo di fare in modo che tutti i viaggi siano legati a qualche storia specifica, significativa: quella dei nostri partners, quelle di orientamento sociale che caratterizzano tutti i nostri tours.
Mi chiedi una definizione di Turismo Responsabile: è difficile riassumere in poche righe un concetto molto complesso. AITR a Cervia, nell’ottobre 2005, varò la propria, che votammo anche noi pur trovandola non esaustiva. Essa recita: Il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture. Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.
Quel che devo aggiungere, dopo anni di pratica, è che non è possibile parlare di forme di turismo veramente responsabile, che siano realtà e non vuoti pronunciamenti o velleitarie asserzioni, se non sono coinvolti con sincera dedizione un po’ tutti gli attori, i protagonisti degli eventi che vanno in scena in viaggio, cioè sia gli ospiti che gli ospitanti; affinché ciò accada l’incontro è l’unico strumento valido, quello che può rendere l’occasione memorabile, che può far divertire, scaldare i cuori da ambo le parti. Ma più in generale, uscendo dalla singola esperienza, sul piano sociologico e politico, coinvolti nella stessa logica devono essere gli amministratori del territorio, i residenti o almeno una quota significativa tra costoro. Per brevità mi limito a fare un esempio: uno dei principi del TR è il rispetto dell’ambiente. Ma laddove localmente non esistono raccolta differenziata, cestini dei rifiuti, per non parlare di politiche effettive di risparmio energetico a tutti i livelli, come possono il singolo turista, e a maggior ragione i gruppi, comportarsi responsabilmente?
Per tornare al nostro modo di lavorare, per i viaggi di gruppo utilizziamo una squadra di accompagnatori, una decina, molti dei quali collaborano con noi da anni, che RAM forma appositamente quali mediatori culturali, secondo il nostro specifico stile. I nostri sono, sempre, viaggi in mezzo alla gente. L’accompagnatore italiano, solitamente insieme alla presenza di guide locali selezionate in anni di lavoro, costituisce il trait d’union fondamentale dell’esercizio.
Rispetto agli inizi, abbiamo diversificato l’offerta: oltre ai classici viaggi di gruppo con accompagnatore italiano, che restano centrati sull’incontro (il nostro marchio di fabbrica) oggi offriamo viaggi con la formula “in autonomia”, ossia su misura: uno sceglie date e destinazione, noi tracciamo un itinerario personalizzato, prenotiamo i voli e le sistemazioni, e rendiamo possibili le visite ad alcuni progetti di orientamento sociale. Il tutto mettendo a disposizione alcuni nostri referenti locali – per il tempo che si desidera. Si tratta di una scelta adeguata per chi se la senta di viaggiare per conto proprio, dato in questa formula non c’è mediatore culturale italiano ma solo le guide del posto: è fondamentale che almeno uno dei viaggiatori conosca la lingua straniera di riferimento in modo accettabile, poiché i referenti locali parlano solo inglese (o spagnolo nel caso di Cuba). Per i viaggi in autonomia inoltre, diventa fondamentale la riunione preparatoria, perché in essa – che si fa peraltro anche prima di tutti i viaggi di gruppo – vengono spiegate nel dettaglio le situazioni che abbiamo anzitempo prenotato. Possiamo farlo per via della passione che ha generato una competenza adeguata in determinati territori, siamo degli artigiani della logistica. Ancoriamo inoltre l’esperienza all’incontro con persone del luogo che ci danno garanzie sullo “spirito” giusto. In definitiva vendiamo solo ciò che conosciamo, cioè un numero limitato di destinazioni. Ma mi sembra chiaro che non potremmo operare in questo modo se volessimo, come fan tutti, coprire l’intero globo terracqueo. Accanto ai viaggi, a RAM si lavora in termini di cultura. L’organizzazione dei viaggi è divisa da un’attività che spesso i viaggi li critica, li discute, li esamina. L’editoria ne è stato per anni il risultato essenziale. Il volume Turismo Responsabile (ultima edizione 2007) ha portato in Italia questa riflessione, dando il la al movimento successivamente federatosi in AITR. RAM ha prodotto/produce anche una collana di libri fotografici, a metà tra il reportage e l’indagine (Lavoro e Diritti/Local Arts) in cui si esaminano le economie di base di vari paesi asiatici. È online dall’aprile 2018 il blog renzogarrone.com.

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Per approfondire: Il viaggio e l’incontro. Che cos’è il turismo responsabile* ed. Altraeconomia; Cultura della responsabilità e sviluppo locale. La società globale e le comunità responsabili del turismo e del cibo*, ed. FrancoAngeli; Il turismo sostenibile*, ed Giappichelli e tutti i libri di Renzo Garrone acquistabili su https://renzogarrone.com/index.php/libri

Ladakh – Hemis

Hemis è il primo monastero che visitiamo nel viaggio in Ladakh ed è probabilmente uno dei più famosi della regione, grazie soprattutto al festival che si tiene ogni anno, il 10° giorno del mese lunare tibetano (Tse-Chu), per celebrare l’anniversario della nascita di Guru Padmasambhava, o Guru Rimpoche, leader spirituale e fondatore del buddismo tantrico del Tibet, oltre che, in senso lato, la vittoria del bene sul male.
Percorriamo molto lentamente i circa 45 chilometri che separano Leh da Hemis, rallentati a più riprese dai convogli militari che si muovono quasi incessantemente lungo le strade, sollevando nuvole di polvere. E poi finalmente arriviamo in questo sensazionale Gompa che risale alla prima metà del 1600 e fa capo alla scuola dei monaci Drupka, i cosiddetti “berretti rossi” di cui sentiremo molto parlare nei giorni seguenti.
È arrivato il momento dei primi scatti per immortalare l’ingresso al complesso, con le decorazioni che si stagliano contro il cielo azzurro e il verde degli alberi, e l’eremo che si erge in lontananza, scavato nella roccia.

La ricchezza dell’accesso non prepara, tuttavia, alla sorpresa dell’ampio cortile interno, dove al bianco delle strutture principali si contrappongono i particolari lignei policromi del porticato verso cui si muove un monaco solitario.

Da questa immagine prende definitivamente forma il concetto del mio blog, perché non vi è nulla di casuale nel passo del monaco e neppure nella direzione dei miei viaggi.

Di fronte al porticato, salendo la scalinata e dopo essersi tolti le scarpe (un gesto questo che diventerà ben presto abituale) si accede alla sala di preghiera dove incontriamo i primi monaci raccolti in preghiera.

Ci muoviamo piano – anche perché l’altitudine si fa sentire o forse semplicemente rispecchiando i movimenti misurati dei monaci – prendendoci il tempo per ammirare le statue, le pitture murali e gli stupa con le offerte, ma anche per cogliere appieno la magia dei mantra con il loro effetto pacificatore. Ciò che conta è il qui, l’adesso, pare di riuscire a dare forma alla sensazione del tempo che fluisce.

Dopo questa pausa rigenerante visitiamo l’interessante museo, che conserva testi antichi e oggetti sacri preziosi, prima di ripartire, per raggiungere nuove mete, per scoprire nuove prospettive. Ci riproponiamo di ritornare nel 2028, in occasione dell’esposizione – come accade ogni dodici anni – del famoso thangka di Hemis, un rotolo dipinto che ci dicono essere alto almeno due piani e tempestato di perle.

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Ingresso: a pagamento
Del monastero di Hemis scrive Enrico Guala in Ladakh & Zanskar. Guida illustrata  già menzionato nel post su Alchi . Per un approfondimento sul buddismo in Ladakh l’opera di riferimento, in lingua inglese, è A Journey in Ladakh: Encounters with Buddhism di Andrew Harvey.

Bangkok – Mercato dei fiori

L’anno scorso, proprio il 1° novembre, iniziava a Bangkok un viaggio sognato da anni.
Ma di questo sogno racconterò in un altro posto.
Qui voglio portarvi in uno dei miei “luoghi del cuore” nella capitale thailandese, dove torno ogni volta per scoprirlo nuovo, diverso, eppure ormai così familiare.

Il mercato dei fiori (Pak Khlong Talat) è indicato nelle guide come una tappa irrinunciabile, soprattutto di notte, quando il brulicare di attività si mantiene su ritmi frenetici, in contrasto con la calma che regna tutto attorno. Ma è indiscutibile che sia un’esperienza indimenticabile vivere il mercato la mattina presto, quando arrivano i rifornimenti e l’atmosfera diventa a dir poco caotica, con grossisti e dettaglianti, carretti, mezzi di trasporto più disparati, venditori di ghiaccio, tutti in uno stato di moto perpetuo.

Spostandosi tra l’intricata mappa dei banchi, si è avvolti, anzi quasi sopraffatti, dal profumo intenso delle spezie che occupano un’intera sezione e dei fiori che si mescola a quello degli immancabili bastoncini di incenso, l’occhio cade su frutti esotici e verdure dai colori brillanti, ma ciò che colpisce è il tripudio di fiori, dai più umili ai più rari, dai più anonimi ai più sgargianti, quasi finti nella loro perfezione.
Personalmente non amo i fiori recisi, li trovo in qualche modo tristi, destinati come sono a una vita brevissima prima di appassire, ma qui riesco ad ammirarli, a riconoscerli come uno degli elementi caratterizzanti della variopinta cultura thai.

Così come non si può non ammirare la velocità e la precisione delle mani di uomini e donne che creano composizioni e corone, che intrecciano la phuang malai, onnipresente ghirlanda tradizionale che adorna templi e statue, ma anche gli specchietti di macchine e taxi, come un autentico portafortuna la cui realizzazione è frutto di un’arte antica, di gesti precisi ripetuti all’infinito. Ne esistono numerose varianti, sia per forma che per i fiori utilizzati secondo le stagioni, ma per me il collegamento immediato è con le montagne di gelsomini che vengono composti in trecce o catene.
Questa volta, però, sulle bancarelle dominano i petali di loto e le foglie di banano e il motivo lo scopriremo nei giorni successivi, girovagando per le vie della metropoli che si veste a festa e si prepara a celebrare il Loi Krathong.

Dove: Chakkraphet Rd, Khwaeng Wang Burapha Phirom, Khet Phra Nakhon, Krung Thep Maha Nakhon 10200, Thailandia
Quando: ogni giorno, tutto l’anno, praticamente 24 ore su 24
Come arrivare: in tuk tuk, traghetto (fino al molo Memorial Bridge) oppure a piedi dal Palazzo Reale camminando per circa 1 chilometro.
Guide: Bangkok edizione Lonely Planet, aggiornata al 2018 e in versione tascabile.

Ladakh – Basgo (Bazgo)

Un sito stupendo che per qualche motivo le mappe si rifiutano spesso di riportare, raggiungibile spostandosi ad ovest di Leh, per circa 40 chilometri sulla strada che porta a Srinagar.

Arriviamo ai piedi della collina di mattina presto, prima dell’arrivo degli altri sparuti visitatori, e ciò che colpisce innanzitutto è silenzio in tutta la vallata, con i colori delle rocce, il bianco degli edifici e il verde degli alberi che si stagliano contro quel cielo azzurro, dalle nuvole in corsa che ci ha accompagnato per gran parte del viaggio.

Ci godiamo la pace di questo complesso, che ospita anche le rovine della cittadella e di un palazzo, testimonianze del glorioso passato, politico e culturale, di quella che fu la capitale di uno dei regni ladakhi, capace di resistere a un lungo assedio nel diciassettesimo secolo, prima che le strutture in mattoni crudi cedessero al trascorrere del tempo.

Esploriamo ogni stanza, ammiriamo le pitture murali, parzialmente riportate all’antico splendore grazie al contributo dell’Unesco per il restauro, spiamo da ogni apertura nelle mura che lascia intravedere stupendi panorami e facciamo la conoscenza approfondita di una delle figure chiave di questo viaggio, alla scoperta del buddismo dell’India del Nord. Ci troviamo nel Chamba Lhakhang, uno dei tre templi del gompa, dove si ammira una statua alta due piani che si erge verso uno splendido soffitto ornato di decorazioni floreali. È Maitreya. “Maitreya sarà il prossimo Buddha, successore di Gautama Buddha, la cui rinascita è attesa dai buddhisti” ci spiega il custode.


Nel corso del nostro percorso scopriremo come la profezia sulla venuta di Maitreya si ritrovi in tutte le tradizioni buddhiste, anche se con accenti diversi. Certo è che molti dei fedeli con cui abbiamo parlato ritengono che sarà l’ultimo Buddha a comparire sulla Terra e otterrà l’illuminazione completa, un condottiero di uomini destinato a governare sul mondo e sul cosmo, pur restando il Buddha della benevolenza e della compassione.

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Ingresso: circa 30 rupie per ciascun tempio
Sui lavori di restauro del complesso di Basgo con il contributo dell’Unesco (in inglese): https://www.wmf.org/sites/default/files/article/pdfs/Basgo%20Context%20article%202011.pdf

Ladakh – Alchi

 Il viaggio verso Alci (o Alchi), nel cassone aperto di un furgone, con l’aria e la polvere che sbattono sulla faccia, ci porta prima in discesa, lungo una gola profonda fino all’autostrada, poi di nuovo in salita, in un passaggio arido, fino ad arrivare al Gompa, l’unico in tutto il Ladakh edificato su un terreno piano.
Lungo il percorso il nostro mezzo arranca, si ferma più volte e bisogna spingerlo per farlo ripartire e salire in corsa, ma la bellezza dei paesaggi ripaga ampiamente di qualche scomodità, così come l’ottimo pasto sulla terrazza di Alchi Kitchen dove gustiamo, oltre alla pasta fatta in casa, un indimenticabile tè con albicocche e noci che entra subito di diritto nella mia personale classifica delle migliori “bevande in viaggio” (e sì, ovviamente ne scriverò qui prossimamente).
La via obbligata che porta all’ingresso del complesso monasteriale è costellata da bancarelle che propongono prodotti “artigianali” di ogni genere, ma non ci lasciamo distrarre troppo, impazienti di visitare quella che viene definita una delle massime espressioni di arte indo-tibetana del Ladakh, un monastero completamente diverso da tutto ciò che abbiamo incontrato finora in questo angolo di India. Sicuramente è, insieme a Hemis e Tikse, uno dei luoghi più frequentati dai turisti che, però, si disperdono tra i vari edifici, consentendo una visita tranquilla, quasi raccolta degli interni.
Decidiamo come prima cosa di seguire una stradina laterale scendendo sino a toccare le rive del fiume Indu, accompagnati dal suono delle ruote di preghiera che girano senza sosta.

Risaliamo ai templi, che ospitano alcune delle pitture murali più antiche, nei diversi chorten da visitare con il naso all’insù, ma sempre facendo ben attenzione alla testa considerando l’altezza (o forse meglio bassezza) delle porte.

Il Sumtsek, con la sua struttura a tre piani e un portale/porticato intagliato in legno è uno spettacolo per gli occhi – un “universo miniato e simbolico in cui l’iconografia del buddhismo tantrico tibetano si sposa a stilemi e motivi tipicamente kashmiri” – non somiglia a nessuno degli altri luoghi di culto che abbiamo visto in Ladakh, ma sono forse gli altri templi “minori” a regalare un’emozione più profonda, con i gradini d’entrata rovinati da migliaia di passi, le pitture murali a tratti sbiadite a testimonianza del trascorrere del tempo, inarrestabile anche in questi luoghi dove, invece, pare quasi di poterlo fermare, le immancabili offerte, i giardini in fiore in cui sono i gatti dei monaci a farla da padrone, richiedendo con decisi miagolii la giusta considerazione da parte dei visitatori di passaggio.

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Del monastero di Alchi e di molti altri scrive Enrico Guala in Ladakh & Zanskar. Guida illustrata, ed. La Memoria del Mondo, 2018. Un volume agile e utile per scoprire cosa non perdere in un tour per i monasteri della regione (che però avrebbe avuto bisogno di una buona rilettura prima di essere pubblicato!)
Per scoprire tutti i segreti del monastero in 288 pagine, Adelphi propone Alci. Il santuario buddhista nascosto del Ladakh. Il Sumtsek. 

Cieli


Agosto 2018.
Cieli così azzurri e mutevoli, con le nuvole in corsa, che vigilano su distese di nulla li ho incontrati solo in Mongolia. Non un déjà-vu, perché in Ladakh niente è piatto per chilometri, ma il ripresentarsi di sensazioni indimenticate e indimenticabili, richiamate anche dalla quasi totale assenza di umidità che falsa le prospettive, rendendo tutto più vicino e lontano allo stesso tempo.

Allungare una mano e poter toccare un ghiacciaio, in realtà molto distante, oppure vedere un lago salato all’orizzonte, immaginarlo quasi irraggiungibile e camminare sulle sue rive dopo pochi minuti. Quando gli occhi ingannano l’unica misura dello spazio diventano i passi.